L’Oratorio Damasiano è una basilica cristiana a tre navate, che sorge ad corpus sopra la tomba dei martiri Simplicio, Faustino, Beatrice e Rufiniano.
Viene edificato ad opera di Papa Damaso nel 382, nel Lucus degli Arvali (dopo la revoca dell’immunitas per i santuari pagani) ed abbandonato tre secoli dopo, nel 682. Viene riscoperto nel 1868 da Wilhelm Henzen, mentre Giovanni Battista De Rossi effettua i primi scavi archeologici. De Rossi indaga abside e presbiterio, scopre gli epitaffi di Elio Olimpio, Flavio Verissimo ed Aurelio Eutichio e individua il fregio marmoreo con l’epigrafe dedicatoria, grazie al quale l’intero complesso di Generosa, di cui si era persa la memoria, viene interpretato. Nel 1980 Philippe Pergola continua gli scavi: individua il portico d’ingresso e determina la superficie dell’Oratorio Damasiano in 300 mq circa.
La grande confisca del 382 d.C.
Alla fine del IV sec. la religione cristiana è maggioritaria e il paganesimo non sopravvive che negli ambiti rurali più conservatori e presso gli antichi santuari, dove rimane in vigore l’istituto giuridico romano dell’immunitas, che definisce intoccabili i luoghi di culto tradizionali.
Nell’anno 382 le cose cambiano. L’imperatore Graziano emana una serie di decreti, con i quali scardina progressivamente l’istituto dell’immunitas: abolisce le rendite, mette fuori legge i collegi sacerdotali, e infine confisca non solo i templi ma anche i terreni sacri alle divinità del pantheon classico. Gli editti di Graziano travolgono anche il Lucus Fratrum Arvalium, il bosco sacro dei Fratelli Arvali, dove inizia la cristianizzazione forzosa, per volontà di Papa Damaso. Nel Lucus peraltro, almeno da 80 anni, il paganesimo e il cristianesimo convivevano: c’erano infatti le Catacombe di Generosa a 500 metri dal Tempio rotondo della Dea Dia, ed è ipotizzabile che nel Lucus di fine IV sec. il culto cristiano avesse già prevalso sui culti pagani, evidentemente però senza soppiantarli del tutto.
Il pontefice Damaso (366-384) avvia così l’edificazione, nel 382, di una grande basilica cristiana sopra le Catacombe di Generosa, ad corpus, cioè con l’altare in corrispondenza della sepoltura dei Martiri Portuensi. E l’anno 382 segna effettivamente la fine del culto arvalico.
La basilica rimane in uso per tre secoli esatti, fino al 682 d.C., anno in cui, sotto la spinta delle invasioni gotiche che rendono insicura l’area, le reliquie dei Martiri vengono traslate dentro le Mura di Roma. Dell’abbandono dell’area basilicale esiste anche un’evidenza archeologica: gli archeologi francesi che dal 1980 hanno indagato il sito non hanno ritrovato nell’area monete o ceramiche che andassero oltre il VII sec.
Gli scavi di Henzen e De Rossi
Da allora «per oltre milleduecento anni su questa piccola altura della Magliana ci fu silenzio», scrive lo studioso locale Emilio Venditti. «Il tempo ha cancellato tutto».
La riscoperta avviene per caso, nel 1868. In quell’anno gli scavatori dell’archeologo tedesco Wilhelm Henzen sono impegnati in un cantiere 500 metri più a valle, presso il Tempio rotondo sacro alla Dea Dia. Henzen è un epigrafista: un ricercatore, traduttore e interprete di lastre iscritte. È un archeologo che ricava dalle iscrizioni informazioni di prima mano sul vissuto degli Antichi e con esse ricostruisce una storia pura, non filtrata dall’interpretazione degli autori di epoche successive. L’obiettivo della ricerca di Henzen alla Magliana sono le lastre arvaliche, sopra le quali i sacerdoti del Lucus annotavano due volte l’anno gli accadimenti verificatisi durante le celebrazioni sacre. Le indagini di Henzen sono assai fruttuose e portano al ritrovamento di decine di tavole arvaliche.
L’aneddoto popolare vuole che un contadino abbia segnalato all’epigrafista la presenza di lastre arvaliche anche sulla sommità della collina. Henzen, cupido di nuove scoperte, non esita ad arrampicarsi in collina. «Troppo importanti erano le scritte incise su quelle lapidi, ricchissime di particolari sulla vita religiosa e civile della Roma imperiale, per non tentare di recuperarne qualcuna che, per motivi sconosciuti, fosse andata a finire sulla cima del colle», scrive Venditti. Poco importa che la segnalazione del contadino sia, tecnicamente errata: in cima al colle infatti di lastre arvaliche quasi non ce ne sono, se non di riporto. Succede però che Henzen, superata la disillusione iniziale per non aver trovato lastre arvaliche, si trova di fronte ad una distesa di epitaffi cristiani.
Henzen informa subito il topografo specialista della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, Giovanni Battista De Rossi, già allora celebre per aver inventato una nuova disciplina scientifica, l’archeologia cristiana. De Rossi si reca sul posto e si rende subito di avere tra le mani qualcosa di davvero importante.
L’Introitus ad Martyres
De Rossi ottiene dalla Pontificia Commissione l’apertura di un cantiere. E fin dai primi colpi di piccone emergono chiaramente tutti gli elementi di una chiesina rurale paleocristiana, un oratorio: i resti di un abside, un presbiterio, basamenti di pilastri a delimitare la percorrenza di navate. Al momento questi resti non hanno ancora un nome: De Rossi pensa ad un santuario periferico, il cui significato viene via via a ricomporsi come un puzzle man mano che gli scavi proseguono. Seguiremo anche noi, nella descrizione degli elementi architettonici dell’Oratorio, l’ordine con cui De Rossi li scoprì.
Le prime ad essere indagate sono le mura semicircolari dell’abside. Esse sono coperte d’intonaco ed in alcuni punti deve esservi stata una decorazione a mosaico: gli archeologi rinvengono infatti numerose tessere musive sparse sul pavimento dell’abside. Nella calotta absidale viene individuata una decorazione a fondo rosso, nella quale sono raffigurati angioletti con in mano grappoli di uva, insieme a conchiglie marine e delfini.
Guardando frontalmente l’abside, sulla parete di destra, De Rossi individua una portella, che immette in gallerie sotterranee. Non ci vuole molto per l’insigne archeologo ad individuare, nelle gallerie, i loculi funerari e la cripta affrescata, e a riconoscere l’intero complesso di gallerie come una catacomba. La portella nell’abside viene dunque identificato come un «Introitus ad Martyres», cioè il sacro ingresso della catacomba.
A poca distanza dall’Introitus ad Martyres si apre nell’abside una seconda piccola apertura sopraelevata, dalla forma di una piccola finestra chiusa da una grata. Questa viene riconosciuta da De Rossi come una «fenestella confessionis».
La fenestella confessionis
La fenestella è un elemento architettonico caratteristico delle chiese paleocristiane, che consente ai fedeli di stabilire un contatto visivo con la cripta martiriale situata giusto alle spalle dell’abside, e di calare all’interno dei piccoli pezzi di stoffa legati con una cordicella: essi diventano reliquie per contatto, avendo materialmente toccato la santa sepoltura dei Martiri. Il nome «fenestella confessionis», che possiamo tradurre con finestrella dei Martiri, deriva dall’appellativo di confessori della fede che in antico era dato ai martiri (letteralmente: confessore = colui che confessa di fronte ai funzionari imperiali l’appartenenza alla dottrina cristiana).
La fenestella è negli oratori paleocristiani il cardine dell’intera struttura, al punto che l’edificato sorge, attraverso imponenti opere di sbancamento del terreno, allineando la fenestella alla cripta martiriale. Scrive Venditti: «Sarebbe stato più logico costruire l’edificio pochi metri più in alto in modo da risparmiare un grosso lavoro di sterro, in un’epoca in cui, ovviamente, bisognava scavare tutto manualmente». La ragione, scrive Venditti, è che «il punto centrale del piccolo santuario da edificare deve tassativamente essere la tomba originaria dei martiri, intoccabile e di assoluto rispetto. La basilichetta, infatti, è costruita raccordando l’abside direttamente con l’ipogeo venerato». «Ci sono molti esempi illustri di questo tipo di costruzione ad corpus», scrive Venditti, ricordando le grandi basiliche di San Pietro e San Paolo. «Essi testimoniano la volontà delle prime comunità cristiane di essere presenti fisicamente il più vicino possibile ai Martiri, durante la preghiera liturgica comunitaria. È una venerazione affettiva, semplice ed umana, nei con fronti di questi eroici confessori della fede».
La fortunata scoperta delle gallerie a scavo appena iniziato, segna di fatto la fine dello scavo archeologico in superficie, e tutte le forze di De Rossi si concentrano, da questo momento in poi, verso l’area catacombale e la sua interpretazione. Scrive Venditti: «L’umile cimitero sotterraneo si rivela un autentico archivio della fede. Sono rinvenute intatte 800 tombe, dislocate in 400 metri di gallerie. Tutto è rimasto perfettamente in ordine».
Le navate
Lo scavo di De Rossi si ferma poco al di là del presbiterio, un emiciclo dove è collocata la cattedra del celebrante. Il presbiterio si presenta pavimentato con lastre di marmo, con incisi epitaffi funerari cristiani di cui avremo modo di parlare diffusamente.
Al termine del presbiterio due gradini immettono in un’area più bassa, quella delle navate. De Rossi non individua né le pareti laterali né la quarta parete, pur avendo correttamente intuito che l’Oratorio, essendo stato realizzato su uno sbancamento, dovesse poggiare ad ovest direttamente sul fianco della collina.
Grazie all’esame di alcune porzioni murarie e alla disposizione dei basamenti dei primi pilastri, De Rossi ipotizza (correttamente) una pianta a tre navate, divise da colonne: la navata centrale larga 6,50 m, e le due laterali più piccole di 2,75 m ciascuna. Tuttavia, per la limitatezza dell’area scavata, stima (sbagliando), in base a paragoni con altri oratori, una lunghezza complessiva non superiore agli 11 o 12 metri.
Tra il 1980 e il 1986 l’opera di De Rossi viene ripresa, con un nuovo scavo condotto dalla Pontificia Commissione di Archeologia insieme con l’École Française de Rome, sotto la direzione del professor Philippe Pergola. Pergola rimette in luce le fondamenta del perimetro murario, e arriva così a determinarne la superficie delle navate in 280 metri quadrati, per una lunghezza molto maggiore di quella stimata da De Rossi: 20 m × 14. L’oratorio viene quindi, per così dire, completamente ripensato dagli archeologi italiani e francesi: non si tratta di una chiesina di campagna, come ipotizzato da De Rossi, ma di una vera e propria basilica di media grandezza.
Altra importante intuizione di De Rossi confermata da Pergola è la funzione cimiteriale della costruzione: dal 382, essendo venuta meno l’immunitas, si comincia a seppellire in superficie, nel pavimento dell’oratorio-basilica. Gli scavi confermano la presenza di centinaia di sepolture. Le tombe hanno due tipologie: o alla cappuccina, povere deposizioni con la salma coperta da tegole in coccio, oppure in formae, entro strutture in muratura.
Le epigrafi
Gli archeologi hanno indagato con avidità la lastre marmoree sopra le sepolture, per individuare se talune di esse fossero tabulae arvaliche di reimpiego: incise per un lato con un’epigrafe cristiana, e per l’altro con Acta fratrum Arvalium. In effetti molte lastre hanno proprio questa struttura. Sono state trasportate nei musei.
Le altre lapidi con epigrafi esclusivamente cristiane sono state ricoverate all’interno della catacomba; l’opera monumentale Inscriptiones christianae Urbis Romae ne ha annotato le trascrizioni. Si tratta di testi molto semplici e spesso ripetitivi, in caratteri rozzi e spesso con errori di ortografia, che ricordano i nomi dei defunti unito all’augurio cristiano di riposare in pace nella terra, fino al termine dei giorni e la resurrezione finale.
Particolarmente conosciuto è l’epitaffio di Elio Olimpio, qualificato dall’aggettivo «benemerenti», cioè benemerito finanziatore delle opere per la basilica. Il lastrone di marmo (1 m × 1,80) viene ritrovato in frammenti ai piedi dei due gradini del presbiterio, proprio sotto l’altare. L’epigrafe latina recita: «Il generoso finanziatore Elio Olimpio riposa in pace. Morì il 29 giugno [… 382] (lett. «sotto i Consoli Antonio e Svagrio»). Sua figlia beneamata Elia Mallonia riposa anch’essa in pace. Morì il 23 novembre [… 397] (lett. «sotto i Consoli Arcadio III ed Onorio II»). L’epigrafe di Elio Olimpio è la più antica rinvenuta nell’Oratorio. Scrive De Rossi: «Il locus è il primo e più ambito posto nel quale Elio Olimpio fu collocato nel 382, fu scelto ed ottenuto dal genero di lui mentre la Basilica era in costruzione. Me lo persuade il complesso delle verisimiglianze e la coincidenza esatta dell’anno 382 con quello appunto in che la storia ci indicherà confiscato il sacro bosco degli Arvali».
Singolare è l’epigrafe per Flavio Verissimo, da parte della vedova Volusia Martina. Si tratta di una lastra marmorea dalle graziose decorazioni di foglioline di edera e palme stilizzate, con la quale Volusia Martina piange la prematura scomparsa dell’amato congiunto, avvenuta solo dopo 12 anni di matrimonio. Nell’epigrafe la vedova ci tiene a precisare che il matrimonio è stato condotto «nullam querellam», cioè senza mai un battibecco in 12 anni. Un bel traguardo.
Un’altra epigrafe assai celebre è quella dell’85enne Aurelio Eutichio: un’età davvero ragguardevole. Aurelio Eutichio era sicuramente un benestante - o meglio, è sicuramente benestante la moglie Ermione, visto che è lei che l’epitaffio indica come generosa finanziatrice -, e la sua epigrafe si differenzia dalle altre per l’eleganza dei caratteri grafici. Essa riporta: «II marito Aurelio Eutichio eresse questa tomba per sé e per la incomparabile e generosa moglie Ermione. Riposa in pace. È stato sepolto il 18 febbraio all’età di 85 anni, 7 mesi e 4 giorni».
Il frontone dedicatorio
Tra i reperti che De Rossi rinviene nel rovistaggio delle terre di superficie ve ne è uno, giustamente ritenuto la chiave di interpretazione dell’intero complesso cimiteriale. Si tratta di un frammento marmoreo (1 m × 0,30 × 0,30), recante l’epigrafe incompleta: «-stino Viatrici». I caratteri grafici sono elegantissimi, e De Rossi non ha difficoltà nel riconoscervi - per la regolarità del segno grafico e la presenza di sottili volute a ricciolo al termine dei caratteri (le c.d. grazie) - la mano di Furio Dionisio Filocalo, incisore di Papa Damaso.
De Rossi non ha dubbi nel ritenere il frammento parte dell’iscrizione dedicatoria dell’Oratorio: cioè quella scritta, posta sul fronte del luogo di culto, che dichiara ai visitatori a quale santo l’edificio è dedicato. Da infaticabile scopritore, De Rossi scorre dai martirologi l’elenco di tutti i martiri dei quali non è archeologicamente noto il luogo di sepoltura, e immediatamente associa l’epigrafe incompleta «-stino Viatrici» al nome dei quattro Martiri Portuensi: Simplicio, Faustino, Beatrice e Rufiniano. La ricostruzione filologica non è oziosa, ma necessaria: (Fau)stino e Viatrici sono i due nomi propri, declinati al caso dativo, di Faustinus e Viatrix.
De Rossi ipotizza che il testo completo sia questo: «Sanctis Martyribus Simplicio Fau|stino Viatrici | et Rufiniano Damasus Episcopus fecit» (Papa Damaso eresse questo oratorio per i Santi Martiri Simplicio, Faustino, Beatrice e Rufiniano). «Il rinvenimento di questo prezioso frammento epigrafico rimise le cose al proprio posto», scrive Venditti. «L’archeologia ricompone mirabilmente una lacera pagina di storia e precisa che anche la tradizione ha validissime fondamenta».
De Rossi ipotizza la provenienza del frammento marmoreo dall’architrave della facciata, che colloca idealmente sul lato corto dell’Oratorio, in analogia con le altre basiliche. Un secolo dopo invece l’équipe di Philippe Pergola ritrova l’ingresso nella parete lunga rivolta ad est, verso il fiume. Pergola individua un avancorpo in muratura, addossato alla parete est, della lunghezza di 2,70 m, con un piano rialzato di 1 m rispetto al pavimento della basilica. Per una singolare coincidenza della storia, la moderna chiesetta della Madonna di Pompei (1908), replica inconsapevolmente la stessa struttura architettonica dell’Oratorio: pianta rettangolare con ingresso dal lato lungo, quello rivolto al fiume.