Il Trullo dei Massimi è un mausoleo romano del I sec. a.C., situato sulla sponda destra del Tevere all’altezza dello stabilimento Pischiutta.
Il nome deriva dalla forma conica della volta, simile ad un tumulo etrusco, e dalla nobile famiglia dei Massimi, che ne fu proprietaria nel XII secolo. Si compone di un basamento quadrato (oggi ricoperto di sedimenti alluvionali) e della volta a trullo (affiorante). In epoca medievale è stato riutilizzato come casale rustico, con pozzo e cappella, e rappresentava una sosta lungo la via per il mare. Abbandonato, e spogliato dei marmi che in origine lo ricoprivano, nel 1951 sono state rinvenute alcune lastre che si ipotizza siano appartenute al sepolcro. Una di esse racconta in bassorilievo la storia di Iulius, plurivincitore nei giochi gladiatorii.
Oggi del mausoleo è visibile soltanto la cupola schiacciata, realizzata in muratura a sacco, in tufo e pietrisco, su cui si apre l’unico lucernario. Essa poggia su una base quadrangolare, a grossi blocchi di pietra, oggi interamente coperta alla vista dalle frequenti alluvioni e dai riporti di terra dell’arginatura del 1926.
L’ingresso, protetto da una cancellata, introduce in un ambiente circolare oggi parzialmente ipogeo (il piano di calpestìo originario era di poco sopraelevato rispetto all’antico piano di campagna).
Le pareti contengono 7 grandi nicchie simmetriche con finitura in laterizio, dove in antico erano poste le urne cinerarie dei defunti. L’ambiente si completava con stucchi, epitaffi, ritratti e scene di vita in affresco, andati perduti.
Si ipotizza che il sepolcro sia appartenuto ad una ricca famiglia urbana, forse del Trastevere e forse di antiche origini etrusche (sembrerebbe indicarlo la scelta edilizia del tumulo, sebbene il rito funerario della cremazione appartenga già al mondo romano).
Il Trullo, per così dire, ha avuto una seconda vita in epoca medievale. Essa ci è nota soprattutto grazie alle ricerche negli Archivi vaticani condotti dallo studioso locale Emilio Venditti.
Venditti ha individuato nel Regesto sublacense, antico registro di atti pubblici, un documento dell’anno 984, nel quale si parla di una mola sul Tevere, collocata «in apendice que vocatur Trullio». Un altro atto, datato 4 aprile 1011, accenna anche alla presenza di un casale, appartenente ad un tale Erminzanote, che viene venduto al Monastero dei Santi Ciriaco e Nicolò. Lo stesso casale, che svolge anche la funzione di sosta lungo la strada e di cappellina per i devoti, viene poi rivenduto alla famiglia romana dei Massimi. Per circa due secoli i Massimi conducono in zona una estesa campagna di acquisizioni fondiarie, fino a consolidare una proprietà unitaria, rra.re all'mo ricorre in seguito in altri appezzamenti vicini, fino a consolidare una proprietù fondiaria estesa dalla riestesa dalla riva del Tevere all’entroterra. In questo periodo il nome del Trullo si consolida nella denominazione in latino volgare di Trullus de Maximis. La proprietà dei Massimi sembrerebbe terminare nel 1286. Un documento catastale riporta che in quell’anno il casale viene venduto al prezzo di 300 fiorini.
Nel Trecento si attesta in zona un’altra importante famiglia romana, i Merlo. Un documento del 1322 indica tutta la località con il toponimo Contrada Trulli Meruli. Lo studioso Coste, che incrocia queste informazioni con altre successive che collocano in zona un casale di proprietà dei Canonici di Santa Maria in via Lata, ne deduce che il casale del Trullo dovesse aver acquisito dimensioni ragguardevoli, o che sovrintendesse ad una porzione di territorio estesa. Gli scavi archeologici più recenti hanno tra l’altro rilevato, nel pavimento del Trullo, che l’insediamento era anche fornito di un pozzo.
Nella prima metà del Quattrocento del Casale si perde ogni traccia. Possiamo ipotizzare una piena eccezionale del Tevere, che abbia travolto le strutture medievali, risparmiando solo i robusti blocchi di pietra della struttura del Mausoleo.
Si torna a parlare del Trullo nel 1458, in un documento del tempo di Papa Pio II. L’interesse che spinge qui gli incaricati pontifici è però ben diverso dai precedenti, e si evince da un libro paga del 1458: «A Mastro Cencio e Mastro Pietro Goputo, co’ manuali, ducati 50 per cavar petre a lo Trullo». Il 21 maggio 1461 un altro libro paga riporta l’acquisto di «25 barili de vino corso, dato pe’ li manuali e scarpellini, li quali ano lavorato a cavar marmi a lo Trullo». A distanza ravvicinata un altro documento riporta: «A Mastro Petro marmoraro, per costo di subbia e mazzola pe’ li scarpellini a lo Trullo». E un altro ancora: «A Palombello carraro e Giorgio Schiavo carraro, per carreggiatura de marmi da lo Trullo». Altre somme di denaro sono date «A li 23 de gennaro 1462 a Mastro Silvestro per tiratura de sette carrate de marmo condocti co’ suoi bufali da esso Trullo a esso fiume». Da questa nota si evincerebbe che i marmi più pesanti vengono caricati su imbarcazioni, e di lì trainati da buoi in risalita lungo il fiume fino a Roma. Per quattro anni circa, dunque, dal 1458 al 1462, viene operato al Trullo un grande saccheggio di pietre nobili, che lo riducono alla condizione miserevole di oggi, in cui rimangono solo le scheletriche murature in tufo.
Il Lanciani, nella sua Storia degli scavi di Roma, edito nel 1912, arriva peraltro alla stessa conclusione senza aver consultato gli archivi vaticani, ma semplicemente osservando la nudità delle murature a sacco, prive di coperture in laterizio. Possiamo immaginare che quei marmi siano finiti a Roma, per alimentare il grande cantiere papalino che preparava il risveglio dal lungo sonno medievale.
L’ultima notizia documentale del Trullo risale al 1547. Nella Mappa della campagna romana del cartografo Eufrosino della Volpaia il luogo è citato solamente con il nome di Turlone.
Nel 1951 una draga urta casualmente un relitto navale, sulla riva destra del Tevere all’altezza del km 6,300 della via Ostiense, di fronte al Trullo dei Massimi. Il pesante carico in essa contenuto rende impossibile la rimozione e, quando i sommozzatori si calano all’interno per un intervento, davanti a loro si offre lo spettacolo dell’intero bottino di spoliazione di un sepolcro romano, molto probabilmente il nostro Trullo.
L’elemento principale è una lastra di marmo lunense cm 120 × 75 × 37, oggi conservato al Museo nazionale Romano. La lastra raffigura in bassorilievo un combattimento tra due gladiatori della classe dei provocatores, con a fianco un terzo e un quarto in attesa (il quarto è incompleto).
L’epigrafe è una delle più corte, e insieme delle più curiose che la letteratura latina ricordi. Essa recita soltanto: «iul w». La studiosa Sabbatini Tumolesi, chiamata a decifrare la misteriosa epigrafe, l’ha così sciolta: iul(ius)v(quinquies)v(icit). Ovvero: Giulio vinse cinque volte. Giulio è la seconda figuretta di gladiatore, vittorioso in cinque incontri. Al sesto, probabilmente, morì.
La doppia v sta dunque a significare l’unione del numerale cinque (il cui simbolo è la lettera v) e dell’azione vicit (vinse). Riportare cinque vittorie consecutive era un grandissimo onore per un gladiatore, una sorta di grande slam, meritevole di essere trascritto sulla sua tomba. Ancora oggi si è soliti indicare i pluri-campioni con l’uso enfatico della lettera W.
Se nella tomba avessimo invece trovato lo stesso simbolo rovesciato (la m di missus) o peggio ancora un cerchio (la o di obiit), ciò sarebbe stato ad indicare una sconfitta con grazia (al gladiatore veniva cioè risparmiata la vita), o una sconfitta senza grazia (il gladiatore veniva ucciso, sotto gli occhi in visibilio dei rozzi plebei romani raccolti negli stadi). A fare la differenza fra la grazia o la condanna era un semplice gesto dell’Imperatore: pollice su o pollice giù. Il pollice levato indicava che il gladiatore, seppur sconfitto, aveva combattuto con onore, e meritava di aver salva la vita e di poter combattere ancora. Il pollice verso (per la verità evento piuttosto raro nei giochi gladiatori), indicava che con esso terminavano insieme la carriera e la vita del gladiatore.
Per sei anni, fino al 1956, l’allora sovrintendente Salvatore Aurigemma tira fuori uno a uno i marmi sottratti dal sepolcro. Ne tira fuori in tutto 20, tra cui un’altra bella scena gladiatoria, 3 stele virili togate e una testa. Nel 1981 la studiosa Rita Paris, chiamata a datare il sepolcro in base agli indumenti indossati dai gladiatori, ne conclude che il sepolcro si può datare al primo trentennio del I sec. a.C., grazie soprattutto all’analisi dell’elmo a paratigmidi distinte (a volto scoperto).
In quegli anni il Trullo è stato nuovamente oggetto dell’interesse della Soprintendenza, con una campagna di studio, pulizia e svuotamento (il sepolcro risultava infatti riempito da fanghi alluvionali), e con l’aggiunta del cancello di ingresso per impedire che balordi vi si accampassero.
Il Trullo oggi giace abbandonato sul piè d’argine fluviale. Gli ortolani sono soliti chiamarlo Torraccio, o al femminile Torraccia. Eppure, abbiamo riscontrato con piacere, ciascuno di loro conosce che la Torraccia è il nobile mausoleo che dà il nome al moderno quartiere Trullo, ed è disponibile ad indicare ai visitatori la strada non agevole per arrivarvi.
Il Trullo si trova alle spalle dello Stabilimento Pischiutta di via delle Idrovore della Magliana, 49. Si può raggiungere in automobile il Collettore della Maglianella e di lì proseguire a piedi lungo il piè d’argine sul vecchio selciato dei bufalari. Occorre procedere fino al traliccio dell’alta tensione. Il mausoleo è lì accanto. Sono state segnalate tuttavia diverse situazioni di pericolo, che rendono sconsigliabile andarci da soli: cani sciolti, insediamenti abusivi, allagamenti in periodo invernale.