Il Monumento ai Caduti del Trullo è un piccolo sacrario a ricordo degli abitanti della borgata che che hanno perso la vita, in nome della Libertà, nella II Guerra mondiale.
In un giardinetto delimitato dalle ogive di quattro bombe inesplose è posta la statua di Santa Caterina da Siena con i tradizionali simboli del martirio: la croce, la palma e la ruota spezzata. Sul basamento sono incisi i nomi di Nino Costanzi (deportato in Germania), Vittorio Arcese (caduto in Libia) e di altri 25 militari, con la dedica «Ai gloriosi caduti». Il monumento insieme alla Scuola Collodi è forse uno dei luoghi-simbolo della borgata ed è conosciuto col nome popolare di «Milite ignoto». Per consuetudine onora anche la memoria del partigiano Giuseppe Testa, dei Granatieri del Ponte della Magliana e dei «Soldati francesi del Trullo».
Conosciamo le vicende che hanno portato all’edificazione del piccolo sacrario del Trullo, e le vicissitudini di alcuni dei nomi incisi nel marmo, grazie alla ricerca storica del professor Emilio Venditti.
Dopo la Liberazione - riferisce lo studioso - un’euforia generale avvolge la città, e con essa il quartiere del Trullo. Anni di misurata sopportazione delle miserie lasciano improvvisamente il posto ad una gioia e una speranza finalmente libere di esplodere. Grande è la felicità, ad esempio, dei coniugi Pieroni del II Lotto, genitori di quattro figli maschi partiti per la guerra, tornati tutti e quattro a casa uno dopo l’altro: «irriconoscibili dopo tanti anni di vita militare», racconta Venditti, ma impiedi sulle loro gambe. Per loro «ci fu una autentica gara di solidarietà tra tutti i cittadini per offrire a questi scampati un pranzo e fare festa presso la Trattoria dei Tre Pini».
Sono molti però quelli che tornano al Trullo invalidi o mutilati, anche a distanza di molti anni (è il caso dei prigionieri in Africa, Russia o addirittura in India). E ci sono molti altri, invece, che al Trullo non torneranno mai. Si tratta di militari dalle storie molto diverse tra loro: partiti per la Libia, la Russia o l’Europa orientale; o sbandati dell’8 settembre morti per fucilazione o nei campi di lavoro.
Per onorarne collettivamente la memoria è stato realizzato, a guerra finita, al I Lotto del Trullo, un piccolo monumento che ne conserva i nomi e ne ricorda del sacrificio. Il piccolo sacrario si trova nello spazio aperto che precede il I Lotto, di fronte alle Suore del civico 372 di via del Trullo. La catena che cinge il monumento è retta, ai quattro angoli, da altrettante ogive di bombe inesplose. Il monumento consiste in una semplice statua in stucco, che rappresenta Santa Caterina da Siena, con i capelli sciolti e una corona in testa, vestita con il saio. La Santa porta al petto il Crocifisso e, con l’altra mano, sostiene un ramo di palma. Ai suoi piedi l’attributo del martirio, una ruota spezzata.
La statua è posta su un basamento a sbalzo in travertino, su cui sono incisi i nomi di 27 caduti con la semplice epigrafe «Ai gloriosi caduti della Borgata Trullo Magliana». A differenza del monumento ai Caduti della Parrocchietta i nomi dei caduti non sono qui messi in ordine secondo il grado militare, ma in semplice ordine alfabetico. Essi sono: Vittorio Arcese (caduto in Libia), Luigi Achille, il caporal maggiore Romeo Bonetti, Antonio Bosas, Antonio e Michele Barilli, Giovanni Cacchiata, Giovanni Costanzi (deportato in Germania), il caporal maggiore Ferdinando Cittadini, il sergente Rinaldo Cabas, il caporale Antonio De Vito, Augusto Di Marzio, il caporale Luigi D’Andrea, Giovanni Giovagnoli, Eduardo Gusella, Aldo Ioli, Ivo Merighi, il sergente Aldo Marinacci, Angelo Mazzola, Giuseppe Palma, Luigi Simeoni, Francesco Spanicciati, Lorenzo Sessarago, Ennio Schiavetti, Domenico Tabolacci, Ernesto Valori e il caporale Blandino Vignarelli.
Giovanni Costanzi, conosciuto nel quartiere col diminutivo di Nino, è «un bel giovane amato e stimato in tutto il quartiere» (Venditti), arruolato non ancora ventenne, in servizio come militare nel Nord Italia.
Dopo l’8 settembre Costanzi rifiuta di arruolarsi fra le truppe della Repubblica di Salò: catturato dai Tedeschi viene deportato in Germania nel campo di concentramento di Moosburg (vicino Monaco di Baviera), dove muore il 12 ottobre 1944. Venditti ne racconta la fine con mestissime parole: «Per la Germania si profilava il crollo politico-militare e tutto l’apparato industriale, per evitare il tracollo, doveva produrre al massimo. Buona parte della mano d’opera era reclutata tra i prigionieri di guerra, quindi anche italiani. Il fisico di questo nostro giovane, però, come accadde a milioni di altri internati nei campi di concentramento, non resistette agli sforzi sovrumani che gli venivano imposti, per cui, malnutrito e senza cure, crollò fisicamente oltreché moralmente. In pochissimo tempo le infiltrazioni polmonari portarono alla morte Nino Costanzi».
In una commovente lettera il cappellano militare di Moosburg ha raccontato alla famiglia la vita di Costanzi nel campo di concentramento: «vinto dagli stenti, dalla fame e dalla tubercolosi contratta in quei disumani campi nazisti». Solo tempo dopo la famiglia riceve anche una fredda raccomandata dal Ministero della Guerra, che ne confermava le circostanze della morte con la formula di rito «per deperimento organico generale in seguito a tubercolosi».
Vittorio Arcese è un giovane operaio, da poco sposato e padre di due figli, reclutato nel 1942 e inviato a combattere in Africa. Muore nel 1943, nella regione libica della Tripolitania.
Anche qui una gelida comunicazione ministeriale informa la vedova che la morte di Vittorio Arcese, avvenuta tra Bengasi e Tripoli, durante un’operazione di trasferimento di truppe e materiali. Nelle comunicazioni ministeriali vi è una codifica, che purtroppo è oggi stata decifrata: così come la formula «per deperimento organico» indicava che il caduto «era morto di fame», allo stesso modo la formula «durante il trasferimento» indica che il caduto è saltato in aria su una mina. La salma di Vittorio Arcese, rimasta per anni in un cimitero libico, è potuta rientrare in Italia nel 1970.
Non conosciamo le vicende personali degli altri 25 soldati ricordati nel monumento del Trullo. Eppure «ai piedi del simulacro - ricorda ancora Venditti - una sconosciuta mano pietosa depone talvolta un mazzo di fiori di campo; un gesto umile che perpetua il ricordo». Quanto scritto dal Professor Venditti, negli Anni Ottanta, corrisponde al vero ancora oggi. Ed anzi il monumento conserva oggi il nomignolo popolare di «Milite ignoto» ed è finito per diventare, al di là dell’origine prettamente militare, un monumento alla memoria corale di tutte le vittime del quartiere, e al dolore patito da tutte le sue famiglie per i propri figli - in divisa o senza la divisa - caduti per la libertà della Patria, o semplicemente vittime innocenti della barbarie della guerra. Il quartiere ricorda qui ad esempio anche i civili vittime dei bombardamenti, o anche dei mitragliamenti aerei a bassa quota.
L’8 settembre non manca mai la corona a ricordo dei 38 militi appartenenti al I° Reggimento dei Granatieri di Sardegna caduti nel 1943 nella Battaglia per il Quinto Caposaldo (di essi parliamo diffusamente nella monografia sul Ponte della Magliana).
Ed ancora viva è la memoria del diciannovenne impiegato del Genio Giuseppe Testa, divenuto partigiano e comandante militare della Brigata Marsica: fu Medaglia d’Oro della Resistenza (anche di lui parliamo, diffusamente, nella monografia sul Genio).
Indossavano infine una diversa divisa, quella degli eserciti alleati, i militari francesi giunti al Trullo all’indomani della Liberazione di Roma, avvenuta il 4 giugno 1944. Il rapporto degli abitanti con i Liberatori è ben diverso da quello intrattenuto con i feroci occupanti germanici. «L’accampamento alleato - ricorda Venditti - si trovava al Castello della Magliana». Ma al Castello dimorano soprattutto gli ufficiali, mentre la truppa viene alloggiata ai fabbricati all’VIII e X Lotto, ancora in costruzione. In particolare «una compagnia di paracadutisti francesi si accampa nel fabbricato della scuola elementare tenuta dalle Maestre Pie dell’Addolorata in via Sarzana, e vi resta circa due mesi». Molti abitanti della borgata, molti dei quali nati in Francia e rimpatriati frettolosamente nel 1940, tornano così a parlare con i liberatori una lingua familiare. Fra di loro molti bambini, tra i quali lo stesso Venditti, originario di Marsiglia, che ricorda le barrette di cioccolata o la marmellata ricevuti in dono.
All’incirca a metà luglio per il contingente francese arriva però l’ordine di interrompere questa inattesa vacanza romana, e partire per la missione più difficile della guerra, la Battaglia di Normandia.
È probabilmente in questo contesto che due militari - il sergente maggiore Gabriel Courrier e il suo compagno d’armi Paul Teyssier - chiedono di visitare le Catacombe di Generosa, cosa che avviene il 17 luglio 1944. Essi, alla luce di torce militari, si spingono sin nelle gallerie più profonde della catacomba. Si raccolgono quindi in preghiera, e incidono a matita i loro nomi su una tegola di copertura. Paul Teyssier, in un riquadro di piccole dimensioni, incide il monogramma AM (Ave Maria), il cristogramma chi-rho e un lis-de-France (emblema della nazione francese), preceduti dalla sigla AMDG (Ad maiorem Dei gloriam) e accompagnati dalla toccante invocazione: «Saints Martyrs, protégez ma mère» (Santi Martiri, proteggete mia madre). Il suo compagno, sulla stessa tegola, incide: «J’ai visite cette catacombe le 17/7/1944. Sergent chef parachutiste Courrier Gabriel». Venditti spiega questa epigrafe, che è insieme documento storico e testamento spirituale: «Avevano scritto i loro nomi e quella invocazione, come fanno talvolta i pellegrini sulle pareti dei santuari. Toccante è l’invocazione di quel giovane militare che inconsapevole dell’imminente dramma, raccomanda ai Santi Martiri la sua mamma lontana».
Venditti racconta anche come finisce la vicenda dei parà francesi: «Si seppe che la missione di guerra finì tragicamente, con l’annientamento di quasi tutta la compagnia. Fu un’ecatombe ».