Gli Orti di Cesare sono una proprietà fondiaria di epoca romana, localizzabile tra il Gianicolo e la Piana di Pietra Papa.
Il console Caio Giulio Cesare ne diviene proprietario nel 49 a.C. Riferisce Plutarco che il corpo edilizio principale, il Palatium, sorge verso le pendici del Gianicolo, circondato da alti e odorosi pini. Nel 46 Cesare vi ospita, al riparo da sguardi indiscreti, la regina Cleopatra. Dopo l’arrivo della regina il Palatium si amplia, con l’aggiunta di un peristilio, sontuosi affreschi e la statua colossale di un guerriero gallico. Nei giardini trovava posto anche un tempietto dedicato alla Dea Fortuna; i giardini si aprivano su un porticciolo fluviale in cui era ancorato il barcone egizio di Cleopatra. Dopo la morte del dittatore, avvenuta nel 44, gli Horti passano in eredità al Popolo di Roma.
Caio Giulio, il tiranno
Caio Giulio nasce il 13 luglio del 100 a.C. Educato alla grammatica nel periodo turbolento del Bellum sociale, è avviato alle armi ed inviato in Asia per sfuggire alle liste di proscrizione, che già avevano colpito lo zio Caio Mario.
Svetonio ne dà una descrizione giovanile: «Di alta statura e carnagione chiara, è meticoloso nella cura del corpo al punto di tagliarsi i capelli, radersi e depilarsi con estrema cura. Sopporta malissimo il difetto della calvizie, per il quale spesso viene deriso: per questo fa il riporto, dalla cima del capo, dei pochi capelli».
Nel 78, alla morte di Lucio Cornelio Silla, capo della fazione degli Optimates, Caio Giulio torna a Roma ed inizia il cursus honorum: è prima questore, poi edile, pretore, pontefice, governatore della Spagna Ulteriore ed infine console, in alleanza con i triunviri Crasso e Pompeo. Dal 59 è in Gallia, impegnato nella campagna contro Elvezi, Veneti e Belgi, il cui capo Vercingetorix è sconfitto nel 52.
L’oratore Cicerone individua nella sete di potere il motore delle sue azioni: «Ha memoria e ingegno, cultura ed equilibrio, prontezza. Ma non ha altra ambizione che il potere, che persegue con sprezzo del pericolo. La plebe ignorante se l’è conquistata con elargizioni frumentarie, opere pubbliche e feste; i suoi li ha conquistati con i premi; gli avversari con la clemenza. Insomma: a Roma, un tempo fieramente libera, ha dato l’abitudine di servire, un po’ per timore un po’ per rassegnazione».
Domata la Gallia, la strada per il potere assoluto è aperta. Crasso muore improvvisamente e l’ex alleato Pompeo resta il solo dichiarato oppositore. Il 10 gennaio 49 Caio Giulio varca il fiume Rubicone, il confine territoriale vietato alle legioni in armi, per regolare i conti con il rivale. Il dado del Bellum civile è lanciato: «Alea jacta est». Caio Giulio insegue Pompeo e i suoi luogotenenti per tutto il Mediterraneo - in Italia e Spagna, in Africa e Grecia -, mancando sempre la vittoria decisiva. A Farsalo Pompeo è sconfitto, ma sopravvive e ripara in Egitto: le legioni di Cesare lo inseguono anche lì.
In Egitto l’ambizioso console incontra la regina Cleopatra, ultima esponente della dinastia dei Tolomei: affascinante, volitiva, con una biografia personale non molto diversa dalla sua. Da allora i loro destini si uniranno in una cosa sola.
Cleopatra, amante portuense
Cleopatra (69-30 a.C.) nasce ad Alessandria d’Egitto. Governa dalla primavera 51 con il fratello Tolomeo XIII, di cui è sposa, fino alla tumultuosa deposizione, ispirata dal consigliere Potino. Quando Pompeo, inseguito da Cesare, sbarca in Egitto, è in corso una furibonda guerra civile: da un lato ci sono gli eserciti di Tolomeo XIII e della sorella minore Arsinoe, dall’altro quelli di Cleopatra e di un quarto fratello, Tolomeo XIV. Cleopatra è quasi certamente destinata alla sconfitta, allo sbando nel deserto nei pressi di Alessandria.
L’arrivo di Pompeo rimescola le carte in tavola. Il consigliere di Tolomeo XIII, Potino, nella speranza di ingraziarsi Roma, fa uccidere Pompeo subito dopo lo sbarco, e ne offre a Caio Giulio la testa. La reazione del console è però sdegnata, tanto da catturare Potino e giustiziarlo sommariamente, e prendere le parti della sua oppositrice Cleopatra. Ma Cleopatra non è ormai solo un’alleata di Caio Giulio: nel frattempo ne è divenuta l’amante. Lo scontro militare decisivo avviene ad Alessandria nel 48: le successive vittorie di Tapso e Munda consegnano a Caio Giulio l’intero Egitto, che rimane formalmente indipendente, sotto la guida di Cleopatra.
Molto si è scritto sulla relazione tra Cleopatra e Cesare, parlando di interesse, di passione, a volte di lussuria. Le certezze sono due: che Cleopatra, più che bella è affascinante (sarebbe stata bassa e col naso a becco!); e che gli interessi del console romano e della regina egiziana sono straordinariamente convergenti: Caio Giulio vuole l’Egitto per impadronirsi delle sue risorse finanziarie, e Cleopatra, non potendo fermarlo, mira a sedersi al suo fianco. A complicare il tutto, scoppia tra i due una relazione, che a detta degli studiosi non fu completamente sincera, ma di sicuro fu ardente.
Nel 46 Caio Giulio, ormai padrone di un Egitto pacificato, prende la decisione di tornare a Roma, per incassare il credito di popolarità maturato con le sue campagne e candidarsi al potere supremo nella Repubblica. La regina-amante decide di partire con lui, con il figlioletto Cesarione, appena nato dalla loro unione. Dopo breve navigazione le navi di Caio Giulio gettano l’ancora ad Ostia. Il console alloggia Cleopatra poco al di fuori di Roma, nei suoi Horti sulla Riva Portuense: Cleopatra è pur sempre una straniera, e occorre cautela nel presentarla ai Romani e alla moglie legittima, Calpurnia.
Nella corte egiziana in Riva destra Cleopatra rimarrà per due anni, dal 46 fino alla tragica morte dell’amante, console e dittatore, alle idi di marzo del 44.
Calpurnia, la nobile rivale
Calpurnia è la terza moglie di Caio Giulio Cesare: prima di lei Cornelia era morta prematuramente e Pompea era stata ripudiata. Il matrimonio si celebra nel 59 a.C., quando Calpurnia ha solo 16 anni.
Caio Giulio la saluta poco dopo, per impegnarsi nelle complesse fasi del Bellum Gallicum, del Bellum civile e dell’ascesa al potere assoluto.
Calpurnia attende fiduciosa nella Reggia Palatina, dedicandosi all’amministrazione delle proprietà familiari, ultima delle quali sono gli Horti nel Territorio Portuense (Orti di Cesare). Il condottiero torna a Roma solo nel 46, portando con sé come ingombrante preda di guerra la regina Cleopatra, che ospita proprio negli Horti, a debita distanza dall’Urbe e da Calpurnia.
Calpurnia reagisce con misurato contegno romano: conosce le infedeltà del marito e assiste impassibile alla parata trionfale, in cui Cleopatra sfila su un trono d’oro trainato da 40 elefanti. Calpurnia sa che Cesare sta lavorando ad una legge ad personam che gli consenta di avere due mogli; ma sa anche che in Senato c’è chi preme affinché ripudi Calpurnia e sposi Cleopatra, allettato dalla prospettiva di acquisire l’Egitto per via ereditaria. Chiusa in un severo silenzio, Calpurnia dalla Reggia Palatina scruta ogni giorno gli Horti, dove la rivale sta trasformando il luogo desolato in una sfarzosa corte orientale.
Il popolo di Roma prende unanime le parti di Calpurnia. Da Cicerone in poi tutti la informano che Cesare il Conquistatore è stato ormai conquistato dall’avvenente regina egiziana, che non è la sua prima amante ma certo è la più pericolosa. Eppure Calpurnia rimarrà a fianco del marito fino all’ultimo, al mattino delle Idi di marzo del 44, senza più risposarsi dopo.
Alla corte di Cleopatra
Tra il 46 e il 44 a.C. la regina Cleopatra trasforma gli Horti di Cesare in una corte reale, sul modello della Corte egiziana di Alessandria. Della breve vita della Corte portuense - caratterizzata da ingenti opere edilizie, ingente sfarzo, ingenti spese -, rimangono oggi solo i racconti degli artisti e delle personalità pubbliche che vi soggiornarono.
Le opere edilizie si concentrano sulla villa alle pendici del Gianicolo, ampliata e trasformata in Palatium. Vengono dipinti affreschi con episodi mitologici e viene innalzata la statua colossale di un guerriero gallico. Nei campi portuensi, dove pascolano bradi i cavalli della Mandria Sacra, la circolazione è regolata da due strade: la Via Campana che taglia dritto verso le terme (oggi Pozzo Pantaleo), e la via alzaria che segue la riva del Tevere. I campi diventano giardini di delizia, con il barcone di Cleopatra all’ancora nelle darsene (presso l’odierno Ponte Marconi). Cesare segue i lavori di persona, tanto che gli oppositori lo accusano per questo di trascurare gli impegni pubblici.
La corte ospita 200 dignitari, 30 cortigiani, il corpo armato della Guardia reale e un numero imprecisato di servi. La lingua parlata è il greco. Cleopatra ha chiesto a Cesare organici ben maggiori (1000 dignitari e 200 cortigiani), ma Cesare l’ha convinta prudentemente ad accontentarsi, per non sfidare in sfarzo i suscettibili aristocratici della Reggia palatina. Sono numerose infatti nell’Urbe le critiche e i chiacchiericci: sia per aver concesso a una straniera onori regali, sia per averle riconosciuto lo status divino di reincarnazione di Iside.
Agli Horti si recano spesso Bruto, Antonio e il giovane Ottavio, il prediletto da Cesare, dall’indole severa e assai duro verso Cleopatra. Ci sono anche Tolomeo XIV, il fratello-sposo di Cleopatra di appena 13 anni, e l’infante Cesarione. Alla corte stazionano più o meno stabilmente i poeti Sallustio, Asinio Pollione, Lucio Apuleio e i due giovanissimi Virgilio e Orazio, quest’ultimo di appena 21 anni. L’indisciplinato Orazio non fa mistero di detestare la Regina. E tuttavia è per lui che Cleopatra stravede: Cleopatra si annoia mortalmente nel sentire Sallustio declamare il Bellum Iughurtinum ma quando Orazio prende la parola e racconta le avventure amorose delle sue eroine Cleopatra ascolta ammaliata. Addirittura, pare che Cleopatra stessa si sia cimentata nella composizione di un’opera letteraria, andata perduta.
Agli occhi dei poeti Cleopatra appare concordemente bellissima. Cleopatra, racconta Lucio Apuleio, indossa solitamente una conturbante tunica di lino, simile a quelle delle sacerdotesse egizie; possiede anche vesti elaborate, nei colori tradizionali di Roma, il rosso e il giallo, tutte assai discinte rispetto agli standard capitolini. Alla Corte risiedono anche mimi e attori, tra i quali Publilio Siro, e lo scultore greco Arcesilao, che fonde in euricalco una statua della regina nelle vesti di Iside.
Il grande assente dalla Corte portuense di Cleopatra è Cicerone: per il Padre della Patria Roma ha un’unica corte regale, quella sul Palatino.
Cleopatra e la malinconia portuense
Si racconta che le giornate portuensi di Cleopatra siano trascorse in una noia mortale e che la regina abbia subissato Cesare di lamentele, per adeguare l’avaro territorio campagnolo alle sue piccole necessità di regina.
Cleopatra si lamenta per il fracasso della via Campana, continuamente percorsa da carri e muli, e per i continui attraversamenti di pecore e buoi nei suoi giardini. Si lamenta anche per la scarsa portata d’acqua del Tevere, che giudica ben meschino in confronto al Nilo; la stessa Roma, paragonata ad Alessandria, le sembra un villaggio di barbari. La rozzezza dei costumi romani la lascia di giorno in giorno più sgomenta: senza peli sulla lingua afferma che una tale concentrazione di artisti greci, in una città dove non si parla che il latino, è sprecata. È forse qui la chiave per comprendere la malinconia di Cleopatra a Roma: Cleopatra parlava greco, i suoi cortigiani no. Quello che le mancò, probabilmente, fu una quotidianità di rapporti umani.
Per distrarsi dalla noia, Cleopatra va spesso al Foro, trasportata da schiavi su una lettiga, sul duro basolato della Via Campana, tra mille scossoni. Alle sue proteste Cesare le regala una nave, ormeggiata nel Porto di Pietra Papa, che non ha rivali a Roma per grandezza e sfarzo, con cui la regina si reca nell’Urbe senza mettere piede a terra.
Le fonti attestano anche le quotidiane visite di Cleopatra alle terme. Non sappiamo quali: con un po’ di fantasia possiamo immaginare che si trattasse di quelle a lei più vicine, a Pozzo Pantaleo. Cleopatra non ama né il caldo né il freddo e tra gli ambienti predilige il tepidarium, dove sosta in compagnia di uno stuolo di matrone romane che la intrattengono in conversazioni leziose per le quali non prova molto interesse.
Molte matrone si convertono ai culti isiaci, celebrando sacrifici con Cleopatra. Cleopatra ricambia, partecipando ai riti segreti e notturni di Bona Dea, molto in voga tra le matrone. Una divinità minore egizia, Serapide, caratterizzata anch’essa da riti segreti, prende anch’essa rapidamente piede.
Quando la statua di Arcesilao di Cleopatra-Iside è pronta, lo scalpore a Roma è grande: sia perché dal seno scoperto allatta Horus bambino (cioè Cesarione, figlio di Cesare), sia perché Cesare fa mettere la statua nel grandioso tempio di Venere genitrice (il santuario della Gens Iulia), rendendo così palese, a chi avesse ancora dubbi, che Cesare considera Cleopatra al pari di una moglie. Il significato simbolico del gesto è grande: Venere e Iside insieme, ovvero Cesare e Cleopatra, ovvero una dinastia regale che somma insieme potere politico, militare e il favore divino.
È davvero troppo: Cicerone, il portavoce della tradizione senatoria, fa sapere a Cesare di non approvare. Molti dei frequentatori della corte portuense si trasformeranno, di lì a breve, in congiurati.
Cicerone e la beffa dei papiri
L’oratore Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) cerca di trarre beneficio dal soggiorno romano di Cleopatra, cercando di convincere la regina a sostenere una nobilissima missione: salvare dalla distruzione gli ultimi papiri della Biblioteca di Alessandria.
Cicerone intende promuovere una spedizione navale per trasportarli dall’Egitto a Roma. In cambio chiede di poterli tenere, in domo sua, come proprietà privata. La regina egiziana si dimostra però sorda ad ogni richiesta. E del resto ha ottime regioni per essere in collera con lui: appena sbarcata a Ostia Cicerone l’ha additata a pericolo pubblico; in un banchetto con Pomponio Attico l’ha chiamata la detestabile Cleopatra; infine le ha affibbiato il nomignolo divenuto popolarissimo di Crocodyla, cioè donna-coccodrillo, esotica e mordace come i rettiloni del Nilo. Cleopatra è decisa a fargliela pagare.
La regina accetta di incontrarlo, nella sua corte romana agli Horti portuensi. Al pater Patriae Cicerone è imposto un cerimoniale bizzarro: è costretto ad avanzare piegato in due, con il viso all’altezza dei piedi, impossibilitato a compiere ogni altra azione. Cicerone vi soggiace senza fiatare, pur di ottenere quel tesoro dell’umanità. Ma, giunto ad un passo dalla regina, nella posizione scomoda in cui si ritrova, è proprio il fiato che gli manca, e non riesce a tirar fuori di bocca una sola parola.
Cleopatra, con un gesto stizzito, decreta che il tempo assegnato a Cicerone è finito, e lo congeda senza appello. Cleopatra è raggiante per aver lasciato senza parole il primo oratore di Roma. E Cicerone, furibondo, confida a Pomponio: «Prima la detestavo, ora la odio: il morbo che fiacca Roma ha origine ad Alessandria!».
Cicerone non ebbe mai i preziosi papiri.
Cleopatra a luci rosse
Cicerone chiama gli Horti di Cesare i giardini della lussuria, dove il «povero vecchio console» viene irretito dalla voracissima mangiauomini Cleopatra.
E a Roma non si parla d’altro. Si favoleggia di incontri boccacceschi cui prendono parte decine di convitati. Cicerone conia una frase per descrivere gli appetiti a tutto campo di Cesare: «marito di tutte le mogli, e moglie di tutti i mariti». Si insinua persino che il grande dittatore abbia preferito a Cleopatra suo fratello Tolomeo XIV, anche lui ospite agli Horti. Antonio, Bruto e Ottavio, che visitano con regolarità gli Horti, al loro ritorno a Roma non possono che confermare le storie esotiche e incredibili. Si diffonde persino, nelle osterie e tra i legionari, la moda di ornare il fondo delle scodelle con ritratti della regina in pose ardite. Cleopatra è insomma pubblicamente additata come una reproba, ma è in fondo l’interprete di un’istanza di liberazione dei contumi in larga parte condivisa.
Un altro degli argomenti preferiti di cicaleccio alla Reggia Papatina è il figlioletto Cesarione, descritto come un ritardato, un vero campione di stupidità. Anche i culti isiaci destano diffidenza, e si diffonde presto la voce che Cleopatra, al Portuense, pratichi atti di stregoneria.
Cesare intanto è preso da una delle sue riforme più felici, quella del calendario. Promulga il nuovo calendario giuliano, basato sul ciclo delle stagioni ed elaborato dall’astronomo egiziano Sosigene di Alessandria. Il mese di quintilis (luglio) viene ribattezzato iulius in suo onore. Vuole l’aneddoto che, non appena conclusa l’impresa, Cesare abbia ricevuto in dono dalla sua amante il primo calendario sexy della storia: dodici larghi fogli mensili, decorati con alcune raffigurazioni ardite della regina, con pochissimi veli.
E non mancano le lettere anonime. Di volta in volta esse accusano Cleopatra di essere una spietata assassina, un’accorta avvelenatrice, o un’intrigante cortigiana disposta a tutto pur di ottenere un maggior potere. L’innamorato Cesare, ovviamente, non dà a queste voci il minimo peso.
La notte che piansero i cavalli
Nella primavera del 44 a.C. Caio Giulio Cesare è il solo a non accorgersi dei segnali premonitori dell’imminente fine. Uno di essi è il commovente suicidio dei Cavalli sacri.
I Cavalli sacri (o Mandria sacra) sono gli equini con i quali Cesare passò in armi il fiume Rubicone, nel 49 a.C., al tempo delle Guerre civili. Vittorioso, rifiutò di immolarli a Marte come chiedeva la tradizione, e preferì consacrarli al dio, curandone da allora a sue spese il mantenimento, lasciandoli al pascolo brado nelle sue terre in Riva destra, protetti dall’inviolabilità delle bestie sacre. Riferisce Cicerone che da inizio marzo del 44, fino alla vigilia delle tragiche Idi, i cavalli rifiutano cibo e acqua, abbandonandosi ad un pianto struggente e ininterrotto e lasciandosi infine morire di inedia: accompagneranno il loro condottiere anche nell’ultimo passaggio di un fiume, l’Acheronte infernale.
Ma Cesare nel marzo 44 non può certo sentire i lamenti delle bestie sacre, né preoccuparsi delle lamentele di Cleopatra, che a causa dei cavalli non riesce a dormire. Vicende politiche complesse lo trattengono alla Reggia palatina, lontano dai possedimenti portuensi. Gli storici si sono variamente interrogati sulle ambizioni di Cesare in quei giorni. Progettava forse un colpo di Stato per proclamarsi re? Difficile a dirsi. Nei due anni precedenti ha fatto incetta, uno dopo l’altro, di onori e poteri: pater Patriae, console a vita, capo delle finanze, capo degli eserciti, capo della guerra; gli manca solo il titolo di rex, ma dal 14 febbraio ha quello molto simile di dictator perpetuus. Nessuno saprà mai se Cesare progettava davvero, in quei giorni, di farsi re.
Fatto sta che un gruppo di patrizi di fieri orientamenti repubblicani, capeggiato dal praetor urbanus Marco Giunio Bruto e dal praetor peregrinus Caio Cassio Longino, ritiene la salute pubblica in pericolo e ordisce la congiura per uccidere il tiranno. E se i reali intendimenti di Cesare appaiono un enigma, quelli dei congiurati sono molto, molto semplici: vogliono riappropriarsi, in rappresentanza della classe senatoria, dei poteri di cui Cesare li ha spogliati. La congiura patrizia è, in buona sostanza, una controrivoluzione.
Cicerone, da sempre avversario di ogni congiura, probabilmente sa, ma decide di non intervenire, né prendendovi parte, né avvertendo Cesare. Alla fine qualcuno parla e fa a Cesare il nome del cospiratore Bruto. E Cesare risponde: «Bruto saprà attendere la fine naturale di questo corpo malaticcio».
Ma un’aria grave opprime Roma. Ancora presagi, di cui prende nota il puntuale Cicerone. Sul Campidoglio piove di tutto: acqua, sangue e palle di fuoco. Sulle Alpi c’è un terremoto, ci sono fiumi che si fermano e scorrono al contrario e pozzi che grondano acqua rossa. E non solo i cavalli portuensi si mettono a piangere, ma pare che anche varie bestie del Campidoglio, di fronte alla sordità di Cesare, si siano messe a parlare. I Romani si convincono che gravi lutti sono in arrivo. Ma non Cesare, che con fatalismo mette in licenza la fidata Guardia iberica ed esclama: «Ho vissuto abbastanza sia in anni che in gloria».
Amici ed uomini illustri provano a metterlo in guardia. Il mimo Publilio Siro glielo dice addirittura in versi: «Fortuna vitrea est, tum cum splendet frangitur»: la fortuna è di vetro, più splende più si rompe facile. L’aruspice Spurinna è quanto mai preciso: gli dice di non uscire di casa alle Idi di marzo, il 15. La vigilia, il 14, la sobria Calpurnia ha un sogno luttuoso. Cesare risponde all’amata consorte con parole eroiche, passate alla storia: «Non dobbiamo aver paura che della paura, gli uomini coraggiosi muoiono una volta sola».
E quella mattina Cesare si reca in Senato, al Campo Marzio (perché il Palazzo senatorio era da poco andato a fuoco). Lungo la via incontra di nuovo Spurinna, al quale dice: «Profeta di sventure, eccomi qui, sebbene le Idi siano arrivate». L’indovino risponde severo: «Sì Cesare, e non sono ancora finite».
Ad attenderlo sotto la statua di Pompeo trova 60 cospiratori, 23 pugnalate e il tragico appuntamento col destino. |
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Gli Orti di Cesare, monografia pp. 10 di Antonello Anappo, in Biblioteca (Sala 2) inv. 226 /B
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