La SARA è una fabbrica di guerra, legata all’invenzione della prima macchina reflex italiana.
La fabbrica consiste in semplici capannoni con volte ad arco ribassato, dove si producono dal 1939 filatoi e telai per pellicola fotografica, macchine aerofotometriche SARA-Nistri e dispositivi di puntamento per carri armati e aerei. Nel 1946 diventa amministratore Telemaco Corsi, intorno al quale si riunisce un team di inventori noti come i Ragazzi di Monte delle Capre. Ad essi si deve - mentre la SARA lavora senza sosta alla riconversione dei residuati bellici in veicoli civili - il prototipo di macchina fotografica a riflessione, in grado di correggere l’inversione sopra-sotto e destra-sinistra delle macchine tradizionali. Il successo del prototipo alla Campionaria del 1948 determina la ristrutturazione della SARA e l’avvio dell’esperienza produttiva in serie Rectaflex.
La fabbrica tessile
Quella della SARA è una storia eclettica. La SARA è una fabbrica che all’inizio produce una cosa, poi ne produce un’altra, poi un’altra ancora e infine ancora dell’altro. Sono produzioni molto diverse fra di loro - macchine tessili, strumenti bellici, autoveicoli civili e macchine fotografiche -, legate dal filo rosso della capacità tutta italiana di cavalcare i tempi, fare di necessità virtù, e guardare il futuro ancora prima che accada lanciandosi nella produzione di una cosa che fino ad allora non era stata mai prodotta, e forse neanche pensata. Per questo occorre partire da molto lontano.
Siamo nel 1883, quando il francese Hilaire De Chardonnet inventa la seta artificiale o rayon, conosciuta poi in Italia con il nome autarchico di viscosa. La viscosa è una fibra tessile artificiale, ricavata da un impasto di segatura di legno addizionato con soda caustica: la soda scioglie la segatura in un fluido colloso che può essere filato e tessuto, proprio come la seta e gli altri tessuti tradizionali. Ma la viscosa ha qualità di lucentezza, resistenza e impermeabilità che non trovano pari negli altri capi di abbigliamento fino ad allora conosciuti.
In più, la viscosa ha due grandi pregi: costa pochissimo, e all’occorrenza può essere anche plasmata, come la plastica. All’epoca la plastica c’è già ma non ha ancora la diffusione di massa che ha oggi, e il Regime fascista intravvede nella viscosa uno strumento autarchico per affrancarsi dall’embargo delle potenze occidentali, che invece hanno già avviato la produzione di plastica dal petrolio. In Italia quindi la plastica si fa con la segatura di legno, e ha, appunto, il nome di viscosa. Basti pensare che in Italia negli Anni Trenta con la viscosa si faceva un po’ di tutto: ci si vestiva, si facevano le pellicole fotografiche, gli pneumatici e persino le dentiere. Unico (e per l’epoca trascurabile) inconveniente, la viscosa era facilmente infiammabile. Non era infrequente leggere, nelle cronache dell’epoca, di disavventure occorse a fumatori con la dentiera.
La produzione industriale della viscosa è appannaggio in Italia di due grandi industrie, concorrenti fra di loro: la CISA Viscosa e la SNIA Viscosa. La CISA ha una struttura frazionata sul territorio, con più sedi specializzate nelle singole fasi del processo produttivo. Al Trullo, e precisamente in via Monte delle Capre, civici dal 23 al 37, in un punto desolato che allora poteva tranquillamente definirsi la fine del mondo conosciuto, la CISA ha una serie di capannoni e caseggiati in muratura, taluni caratterizzati da ampie volte ad arco ribassato in ferrocemento, chiamati Officine meccaniche SARA.
In questi capannoni non si produce direttamente la viscosa, ma si fanno le realizzazioni automeccaniche, cioè i macchinari per la filatura (con cui l’impasto di segatura viene trasformato in filo di viscosa), e i telai meccanici (con cui il filo di viscosa viene tessuto e poi variamente assemblato in oggetti finiti). La sigla SARA sta per Studi Attrezzature Realizzazioni Automeccaniche.
I ragazzi di Monte delle Capre
Dopo il 1939 viene assunto alla CISA Viscosa, ed assegnato allo Stabilimento SARA, il giovane avvocato Telemaco Corsi. Corsi ha un carattere sognatore, e si appassiona di qualunque cosa. Controvoglia ha completato gli studi in legge, più che altro per compiacere il padre, dipendente della CISA, di cui dovrà prendere il posto in azienda. Fin da bambino Corsi riunisce a sé riunisce un gruppo di ragazzi - inventori e fraterni amici fra di loro -, che saranno ricordati col nome di Ragazzi di Monte delle Capre.
All’inizio sono in quattro. Gli altri tre componenti del gruppo si chiamano Luigi Picchioni, Aldo Pardini ed Emilio Palamidessi. Picchioni e Pardini sono compagni di scuola di Corsi: l’aneddoto vuole che da piccoli giocassero al gioco degli specchi, con immagini riflesse ribaltate in rudimentali camere oscure. Aldo Pardini è appassionato di scienze naturali: dopo le scuole inizia gli studi di medicina, in maniera rigorosa e costante. Diventa medico condotto alla Magliana. Sarà sempre uno degli animatori del gruppo ma sceglierà di tenersi in disparte dalla compagine societaria e dai brevetti, rimanendone soprattutto un socio morale. Luigi Picchioni, di impronta tecnica, si iscrive a medicina insieme a Pardini, specializzandosi poi in oftalmologia: diventerà un apprezzato ottico alla Salmoiraghi, società produttrice di occhiali. Picchioni nel gruppo ha il ruolo del realizzatore: è quello che trasforma le idee confuse in oggetti reali e brevettabili, riproducibili in serie.
Corsi nel gruppo è il capo. Non sa che forma avranno gli oggetti che usciranno dalla sua fabbrica, ma ha bene in mente quali problemi essi risolvono e quali sogni concretizzano. È Corsi che trascina gli amici verso la passione per la fotografia. Nel 1939 smonta un apparecchio Daguerre, una macchina fotografica tradizionale di quelle in cui si vede l’immagine sotto-sopra. Corsi intuisce già da allora che, con una serie ben congegnata di specchi, si può ottenere una visione raddrizzata.
Il quarto uomo del gruppo è Emilio Palamidessi, soprannominato Manidoro, che si aggiunge ai tre in un secondo momento. Il soprannome dice già tutto sul suo carattere: introverso, scrupoloso, è quello che assembla con precisione da orologiaio i pezzi pensati dal trio.
La fabbrica di guerra
Ma il 1939 è anche l’anno dei venti di guerra, che iniziano a soffiare impetuosi. Il ragazzi di Monte delle Capre hanno ben poco tempo per pensare alla fotografia, e Corsi è interamente assorbito dal lavoro nello Stabilimento SARA, che si accinge a diventare un nodo strategico dell’industria bellica nazionale.
Succede infatti in quell’anno 1939 che il fascismo nazionalizza la produzione della viscosa, e impone alle due società rivali, CISA Viscosa e SNIA Viscosa di smettere di fare la guerra commerciale e consorziarsi per produrre insieme. Il nuovo colosso industriale CISA-SNIA si riorganizza al suo interno e fa quello che normalmente succede in una fabbrica efficiente: elimina le strutture duplicate, accorpa nelle stesse strutture le produzioni affini, trasferisce specialità e operai specializzati da un centro produttivo a un altro affinché tutto l’ingranaggio produttivo giri a dovere. Così al Trullo, mentre continua la produzione di realizzazioni automeccaniche per la viscosa, si aggiungono le realizzazioni automeccaniche speciali, che ben poco hanno in comune con i tessuti d’abbigliamento, e hanno tutte come committente l’industria bellica nazionale.
La CISA ha infatti ricevuto un’ingente commessa di pellicola fotografica in viscosa per le aerofotometrie (riprese planimetriche del terreno scattate da aerei in volo di ricognizione), e insieme ad esse, si iniziano a produrre al Trullo, su licenza della vicina fabbrica OMI (Ottico Meccanica Italiana) di Valco San Paolo, anche gli apparecchi aerofotometrici Nistri, per le riprese fotografiche dall’alto, a bordo degli aerei.
Poco dopo alla SARA arriva un’altra commessa, per la produzione di puntatori ottici (cioè mirini e collimatori) per aerei, carri armati e postazioni da fermo. Ufficialmente si tratta di mirini per macchine fotografiche. Ma tutti alla SARA sanno, Corsi compreso, che alla SARA si producono i mirini per le armi da guerra.
In pratica la SARA si trasforma in quegli anni in un’industria di guerra, specializzata nella fotografia militare. E la viscosa da abbigliamento diventa già settore marginale.
Dopo l’8 settembre 1943 la SARA viene occupata dalle truppe naziste. Non si hanno notizie dirette su come la fabbrica sia stata gestita in tempo di Occupazione. Ma da fonti orali sembra che in qualche modo la fabbrica abbia continuato a funzionare, e a dare impiego ininterrotto alle maestranze locali. Corsi comunque non c’è.
La fabbrica di pace
Corsi fa ritorno in fabbrica dopo la Liberazione. Il presidente CISA Francesco Maria Oddasso gli affida il ruolo di amministratore della SARA, e insieme quello di direttore di stabilimento (cioè degli impianti produttivi). C’è una grande stima reciproca fra Corsi e Oddasso: da questi Corsi riceve l’incarico, ora che la guerra è finita, di reinventare una nuova vita per lo stabilimento ex produttore di macchine per tessere, ex produttore di macchine fotografiche dall’alto, ex produttore di mirini di precisione per strumenti di morte. Oddasso ha capito che la nuova alleanza dell’Italia con le potenze occidentali apre una lunga prospettiva di pace, in cui le materie prime (e in particolare quelle plastiche derivate dal petrolio) torneranno ad essere disponibili, e questo metterà inesorabilmente la parola fine al tempo della viscosa. È iniziato un tempo diverso: il tempo della fantasia.
La prima commessa della SARA del nuovo corso ha una natura estremamente pragmatica: si tratta dello smaltimento del materiale bellico abbandonato. Corsi ovviamente non ci pensa neanche lontanamente di smaltire tutto portando in fonderia le carcasse metalliche di carri armati, autoblindo, sidecar motociclette e barchini esplosivi della Regia Marina, e talvolta persino cannoni e aeroplani. Corsi ottiene quei mezzi a costo zero: ognuno di essi sarà smontato, reinventato, e rimontato, a colpi di fresatrice. Corsi, che prima di tutto è un inventore, non poteva chiedere incarico più bello e gratificante di questo. Quei mezzi di morte rinascono e diventano nuovi veicoli civili: soprattutto ambulanze per gli ospedali, e motociclette per la Polizia di Stato, ma anche veicoli da trasporto, per la nuova motorizzazione di massa che in Italia sta per arrivare.
Un settore tutto particolare è quello dei piccoli natanti da diporto, ottenuti dalla rottamazione dei barchini esplosivi della Regia Marina. È frequente nel dopoguerra ritrovare questi temibili mezzi d’assalto (capaci in tempo di guerra di sfrecciare nel mare portando con sé 300 kg di tritolo, da posizionare sotto la pancia delle navi nemiche, e poi fuggire in fretta) che sfrecciano sul Tevere e nel litorale romano: con i nuovi motori Alfa Romeo da 80 cavalli, queste lambrette del mare possono raggiungere la fantasmagorica velocità di 32 miglia marine orarie. Le lambrette del mare prodotte alla SARA diventeranno il sogno di un’epoca.
Giò Ponti e la «macchina fotografica perfetta»
Il fatto che la guerra è finita significa anche che i quattro amici possono tornare a riunirsi e lavorare insieme, sul progetto coltivato da anni di creare una macchina fotografica perfetta. Una macchina che, come l’occhio, fotografa esattamente quello che inquadra nel mirino, attraverso una visione riflessa da specchi interni. Deve essere una macchina leggera e maneggevole, deve essere compatibile con tutte le ottiche in circolazione, deve avere una messa a fuoco facile e precisa, deve poter lavorare sia sui tempi di posa lunghi che su quelli brevi.
In quel periodo si affianca al gruppo, seppur a distanza, l’architetto e designer milanese Giò Ponti (1897-1979), conosciuto da Corsi alla Feria Campionaria di Milano del 1946. Corsi vuole che la macchina perfetta, oltre che funzionale, sia anche bella. La Campionaria del 1946 è una tappa fondamentale per la vicenda dei ragazzi di Monte delle Capre. È qui che Corsi, attingendo ai suoi risparmi, acquista da Ireneo Rossi il brevetto della Gamma, una ingegnosa macchina fotografica a telemetro con tendina metallica curva. Intende migliorarla fino a renderla perfetta, fino a produrla in serie negli Stabilimenti SARA. Il sogno della macchina perfetta sta per iniziare. Ma c’è ancora un problema da risolvere.
La Gamma: andata e ritorno
La formazione di una compagine societaria ad hoc, legata alla nuova impresa, crea qualche attrito.
Emilio Palamidessi segue Corsi da subito, e partecipa con un po’ di capitali messi da parte. Aldo Pardini non se la sente di mettere soldi in quell’impresa bellissima, ma che potrebbe anche rivelarsi fallimentare, e preferisce rimanerne un socio morale. Luigi Picchioni invece i soldi non li ha.
Al posto di Pardini e Picchioni interviene il costruttore di macchine fotografiche Flamman. Nel gennaio 1947 Corsi, Palamidessi e Flamman vanno dal notaio e costituiscono così l’azienda Gamma. Acquistano un terreno al civico 39 di via Monte delle Capre, a fianco della SARA, su cui sono già presenti alcuni capannoni.
Nel frattempo, già dalla fine del 1946, al sodalizio dei quattro di Monte delle Capre si è aggiunto un quinto uomo. Il quinto uomo è in realtà l’uomo del mistero: di lui si sa pochissimo. Si sa che di cognome fa Assenza, ma non se ne conosce il nome. L’aneddoto lo descrive come un giovane di bell’aspetto, affascinato dalla Dolce vita, che gira sempre accompagnato da belle ragazze, sue amiche compiacenti. Assenza di professione fa il paparazzo: appena vede un soldato americano manda avanti le sue amiche, e al momento giusto propone agli americani lo scatto di una foto ricordo in dolce compagnia, in cambio di dollari sonanti.
Assenza ha un vecchio apparecchio fotografico Kinoflex, su cui ha applicato un pozzetto esterno di sua invenzione, all’interno del quale vi sono tre specchi inclinati: l’immagine, formatasi sul vetro smerigliato, si riflette nello specchio superiore, poi in quello frontale ed infine viene restituita ad angolo retto in un mirino ad altezza d’occhio, correggendo l’inversione sotto-sopra delle macchine tradizionali. Con la Kinoflex modificata Assenza riesce a scattare con grande velocità. Corsi mette in mano di Assenza 10.000 lire in cambio della sua Kinoflex modificata, e lo assume a stipendio fisso alla Gamma come riparatore.
Di colpo l’invenzione di Assenza rende l’acquisto del brevetto telemetrico della Gamma inutile: la Gamma è una macchina ingegnosa, ma non rivoluzionaria.
Il matrimonio societario fra Corsi, Palamidessi e Flamman viene sciolto senza drammi, in maniera consensuale: Flamman rileva le quote di Corsi e Palamidessi e prosegue da solo l’avventura della Gamma, la cui produzione in serie inizierà un anno dopo. I cinque di Monte delle Capre tornano quindi a lavorare nei locali attigui, quelli della SARA, come se nulla fosse successo. A quanto è stato possibile raccogliere da memorie orali, i rapporti con Flamman saranno in realtà sempre un po’ tesi, ma fra gli operai della Gamma e quelli della SARA (che di lì a breve comincerà a produrre macchine fotografiche) i rapporti saranno invece cordiali. Si racconta, in particolare, di memorabili partite a calcio Gamma contro SARA sui campi polverosi del Trullo.
L’invenzione del pentaprisma
Nello Stabilimento SARA Corsi mette subito a lavorare il meccanico Gaetano Judicone e il tecnico specializzato Manlio Valenzi sul pozzetto di Assenza, insieme al fotografo Emilio Altan, incaricato di testare i risultati.
La svolta però avviene grazie ad un altro meccanico SARA, Michele Frajegari, che sostituisce il pozzetto di Assenza con un prisma ottico monolitico a cinque facce: due di esse sono riflettenti, due sono rifrangenti, e una è neutra. Lo specchio riflettore a monte dell’ottica proietta l’immagine capovolta sulla superficie rifrangente; l’immagine arriva alla seconda faccia riflettente e la proietta sulla terza; infine la terza riproduce l’immagine raddrizzata sulla quarta faccia rifrangente, restituendola raddrizzata all’oculare.
I ragazzi di via Monte delle capre, quell’inverno, lavorano sette giorni la settimana. Con una fitta corrispondenza collabora da Milano anche Giò Ponti, che realizza una cassa cromata dai lati arrotondati, che incorpora il pentaprisma e gli ingranaggi in un blocco monolitico. La prima macchina fotografica italiana a riflessione in pratica è pronta. Altan testa la macchina: funziona.
Corsi prende un treno per Milano e presenta al pubblico la «macchina che raddrizza l’immagine», durante la Fiera Campionaria del 1947. La sua strategia è semplice: raccogliere l’interesse del pubblico e qualche ordinativo sulla carta, per ottenere dalla CISA i finanziamenti necessari per l’avvio della produzione in serie nello Stabilimento SARA.
In fiera però si verifica un inconveniente sgradevole. Un uomo in divisa da carabiniere, il colonnello Armando Pelamatti, critica aspramente l’invenzione di Corsi: perché la macchina perfetta corregge il sopra-sotto, ma non l’inversione destra-sinistra, che effettivamente Corsi ha trascurato: la macchina di Corsi rende un’immagine speculare, non quella reale. Corsi arruola Pelamatti tra i ragazzi di Monte delle Capre, e si mette al lavoro per cercare una soluzione.
La corsa al brevetto
Di ritorno a Roma intanto Corsi ottiene un incontro con gli amministratori della CISA. Riferisce del vivo interesse del pubblico, e mostra le prime prenotazioni. I dirigenti CISA non paiono convinti, e gli chiedono di attendere. Per il momento Corsi ottiene soltanto che la SARA acquisti alcune pagine pubblicitarie sulla rivista Progresso Fotografico, con lo scopo di ottenere qualche riscontro dagli esperti del settore.
A questo punto Corsi, amareggiato ma non vinto, si mette al lavoro per risolvere l’inversione destra-sinistra osservata dal pungente Pelamatti. Pare che la soluzione gliel’abbia fornita, nella prima metà del 1947, un meccanico della SARA addetto al recupero del materiale bellico. L’uomo, magrissimo e altissimo, e per questo soprannominato Sellerone, mostra a Corsi un congegno periscopico contenuto nei collimatori ottici dei carri armati. Picchioni adatta il pezzo al pentaprisma, creando così il nuovo pentaprisma a tetto spiovente, che sdoppia la terza faccia (quella superiore) in due facce riflettenti a 90° tra loro. L’immagine arriva alla faccia finale con visione finalmente rettificata e non più speculare.
Corsi bussa all’Ufficio centrale dei Brevetti, a cavallo tra la fine dell’anno e il 1948. Sa bene di non poter brevettare una tecnologia militare, ma sa di essere il primo ad impiegarla in campo civile. Per questo, insieme a Picchioni gioca la carta del brevetto migliorativo. Il solerte funzionario dell’Ufficio Brevetti però non si lascia convincere e rifiuta l’invenzione, motivando, correttamente, che il periscopio militare col tetto è stato inventato un secolo prima, nel 1850, dal geodeta francese Carlo Mosé Goulier. Corsi è contrariato: perché Goulier aveva lavorato sugli specchi, ma un prisma di vetro con le facce interne a specchio finora non l’aveva ancora proposto nessuno.
In realtà sul pentaprisma sono in molti a lavorare in quel periodo: nel 1932 l’architetto Staudinger aveva brevettato la Pentagon, una 35 mm con mirino prismatico con tetto, che però non venne mai messa in commercio e della cui esistenza si seppe solo anni dopo; nel 1938 la Zeiss Ikon aveva presentato una richiesta per un brevetto simile, che lo scoppio della guerra impedì di portare a termine. Nel 1941 invece l’inglese De Wouters d’Oplinter il brevetto sul prisma riflettente lo ottiene, ma anche qui niente commercializzazione. Anche gli svizzeri dell’Alpa in quel periodo lavorano a soluzioni simili, partendo però da un prisma di diversa forma geometrica. E ci sono anche gli ungheresi della Gamma Works, che brevettano il pentaprisma col tetto senza mai commercializzarlo.
Ironia della sorte, negli stessi giorni in cui Corsi presenta il suo brevetto in Italia, la società Wray Optical Co. presenta una richiesta analoga in Inghilterra per brevettare un pentaprisma pentagonale con tetto spiovente, ottenendolo senza difficoltà.
Tuttavia, se Corsi non può ottenere l’esclusiva dell’invenzione, non gli è precluso né di farne uso né di essere il primo a commercializzarla. Corsi e Palamidessi si recano quindi a Valco San Paolo, alle Officine OMI, società alleata della SARA fin dai tempi della produzione di guerra. Alla OMI commissionano la produzione di una prima serie di pentaprismi a tetto spiovente.
Le altre invenzioni: stigmometro e ritardatore
Il 16 aprile 1948 Corsi e Picchioni bussano nuovamente alle porte dell’Ufficio Brevetti, per depositare una nuova invenzione, lo stigmometro.
Lo stigmometro è un meccanismo per la messa a fuoco, infinitamente più semplice del telemetro ad immagine spezzata allora in uso. L’impiegato dell’Ufficio Brevetti questa volta non ha problemi a concedere l’autorizzazione, e il brevetto dello «Stigmometro - Sistema ottico per la determinazione del punto focale» viene concesso a fine anno. L’aneddoto vuole che lo stigmometro sia stato inventato a seguito di una delusione. Pare che Corsi si sia recato personalmente in Francia dal professor Dodin, inventore del telemetro, per chiedergli il permesso di utilizzare la sua invenzione, ricevendone una richiesta di denari esosissima. Demoralizzato, Corsi si rivolge a Picchioni, che in mezza giornata inventa un dispositivo semplicissimo, basato su una lente cilindrica incollata sulla superficie inferiore del vetro smerigliato. Si legge nei carteggi del brevetto, che lo stigmometro è «un elemento di lente cilindrica il cui piano nodale anteriore è materialmente determinato in modo esatto, così da poter essere portato a coincidere col piano dell’immagine di cui si vuol analizzare la messa a fuoco […]. Viene così ottenuto un effetto di telemetro, per mezzo di dispositivi di pura ottica e senza che occorra alcun meccanismo».
La meccanica di base, dunque, è pronta; la visione reflex c’è; la messa a fuoco pure; perché la macchina sia completa occorre ancora un sistema per effettuare i tempi di posa lenti. Se ne occupano Emilio Palamidessi e Luigi Picchioni, riprendendo un vecchio progetto di ritardatore pensato per la Gamma a telemetro. Picchioni fa uso dello «scappamento ad àncora», un tipo di ingranaggio utilizzato in orologeria per calibrare l’impulso della molla di carica in maniera uniforme, col fine di ottenere l’esatto intervallo di tempo della molla che regola lo scorrimento delle tendine. I tempi lenti vengono impostati tramite un selettore separato rispetto a quello dei tempi veloci, facendolo entrare in funzione al momento dello scatto.
Il prototipo 947
Si comincia quindi a ragionare su una preserie, cioè una produzione artigianale di un prototipo in più esemplari uguali, su cui impostare in seguito la linea di montaggio per la produzione in serie vera e propria.
I modelli di preserie prendono il nome di Standard 947, in omaggio a quel 1947 di sogni e di ore di lavoro strappate al sonno. Questa macchina, prodotta per la verità in pochissimi esemplari, si compone di 280 pezzi in tutto per un peso di 680 grammi.
Viene prodotto un depliant pubblicitario, che recita: «Il sistema di messa a fuoco deriva dal complesso di due distinti elementi: un’applicazione reflex [il pentaprisma] e un dispositivo ottico con effetto di telemetro [lo stigmometro]. Uno specchio a 45° riflette su di un particolare sistema ottico l’immagine proiettata dall’obiettivo. Questo sistema ottico fa sì che l’immagine stessa ruoti di 90° nel piano verticale e di 180° in quello orizzontale. Qualunque sia l’orientamento dell’apparecchio il soggetto si presenta dunque alla visione attraverso l’oculare nella grandezza naturale e nel senso reale, così, come l’occhio lo vede. Le velocità di posa sono sistemate su di un indicatore a due vie: un bottone girevole per le velocità da 1/25 ad 1/1000, e un disco rotante per quelle lente da 1 secondo a 1/10. Queste ultime sono ottenute per mezzo di uno scappamento ad ancora di precisione, montato su 8 rubini».
Tra le altre caratteristiche c’è un bottone unico per far avanzare il film e caricare l’otturatore; e lo specchio riflettore è collegato al pulsante di scatto con un meccanismo di ritorno istantaneo senza bisogno di riarmare l’otturatore. La macchina utilizza una pellicola cinematografica da 35 mm, realizzata in viscosa.
Verso la produzione in serie
Nel maggio 1948 arriva il tradizionale appuntamento della Campionaria di Milano. Anche quell’anno Corsi è lì, con l’obiettivo di raccogliere molte ordinazioni e convincere finalmente il Consiglio di amministrazione della CISA Viscosa a stanziare fondi per trasformare lo Stabilimento SARA, assumere il personale qualificato e iniziare la produzione in serie.
Nello stand Rectaflex c’è esposto il prototipo Standard 947 e un opuscolo con lo slogan «Rectaflex, la reflex magica». Il corpo macchina costa 65.000 lire, abbinabile alle ottiche Angénieux, Berthiot o Boyer.
L’esordio Rectaflex è accompagnato da un servizio redazionale sul Progresso fotografico, dal titolo «Il miracolo Rectaflex. Stavorta er miracolo viè da Roma». Vi si legge: «La Rectaflex è la macchina di oggi e dei domani, in un’aristocratica categoria a parte. Anche lavorando verticalmente, l’immagine appare sempre diritta, con a destra quello che è a destra, a sinistra quello che è a sinistra. I caratteri vi si leggono normalmente. Non ci si venga a dire che questo particolare interessa relativamente, poiché nell’inquadratura è bene vedere le cose come realmente sono: tanto nei gruppi che nella composizione di nature morte od altro, scene sportive in particolare, poiché è più facile seguire un’auto nella sua vera direzione che in senso inverso... Il nuovo telemetro non può conoscere guasti perché incorporato nel prisma ricevente l’immagine. Esso lavora solidale col prisma, e si chiama stigmometro (dal greco stigma = segno, punto, stimmata); è costituito da una minuscola lente cilindrica che presenta la nota caratteristica di deformare l’immagine quando essa non è perfettamente a fuoco, qualunque sia la lunghezza focale dell’obbiettivo impiegato, ed a tutte le distanze. Lo stigmometro garantisce finalmente la matematica messa a fuoco con qualsiasi focale a qualunque distanza. Nessuno ci aveva pensato prima! Il rallentatore dei tempi, tanto ammirato dai meticolosi tecnici svizzeri e montato su rubini non sintetici, costituisce un gioiello di moderna e sicura orologeria... Partita vinta!».
La nuova fabbrica Rectaflex
La fiera milanese è per Corsi un successo. L’avvocato torna a Roma raggiante, con un portafoglio di 300 ordinativi. Impossibile con questi risultati per i soci della CISA rifiutargli quel che chiede.
Si tiene una seduta straordinaria del Consiglio di amministrazione della CISA Viscosa, in cui finalmente Corsi ottiene l’approvazione del suo progetto.
Viene approvata la produzione in serie della «reflex magica» e si decide l’investimento da capogiro di 300 milioni di lire. Sarà costituita una nuova società, la Rectaflex srl; sarà quasi completamente smantellato lo Stabilimento SARA per far posto alla modernissima fabbrica Rectaflex; e Corsi ne sarà amministratore delegato.
Dei tempi della viscosa, ormai lontanissimi, non rimangono che sbiadite fotografie in daguerotipo.