Il Tratto di Via Campana al km 17,500 della moderna Via Portuense è un viadotto sopraelevato sorretto da ponti di pietra, costruito con tecniche simili a quelle degli acquedotti.
Al momento della scoperta, nel 1996, viene scambiato per una condotta idrica, anche perché la carreggiata era ormai spoglia dei basoli. Gli scavi del 2001 e gli approfondimenti della Tuccimei (2008) ne hanno invece permesso la corretta interpretazione: si tratta di una sopraelevazione realizzata al tempo di Traiano (I sec. d.C.), con cui la strada supera una palude idrotermale, interessata da continue fuoriuscite di fanghi, vapori e gas, talvolta tossici. Lo strato arcaico è stato datato con il metodo del carbonio e risale all’anno 643 a.C. Gli archeologi hanno individuato, poco distante, anche una necropoli e un impianto rurale.
L’area di scavo si trova in località Fiera di Roma, ad una quota di piano di campagna fra +2 e +5 m s.l.m., che ha oggi l’aspetto uniforme della pianura di bonifica realizzata sotto il fascismo. Non era così, però, nell’antichità.
Lo strato di bonifica sovrasta completamente le strutture archeologiche: si compone di terra di aratura, terra di riporto e di un fondo limoso-argilloso di colore grigiastro portato da un’alluvione recente, probabilmente quella del 1915. Al di sotto troviamo uno strato di argilla compatta blu-nerastra su cui scorre la falda superficiale, insieme a sedimenti alluvionali del paleosuolo preromano: è in questo strato che si trova la Via Campana.
Ancora più sotto, però, troviamo uno strato profondo che i geologi chiamano Fondovalle tiberino, cioè quello stretto e profondo canyon, scavato subito dopo l’ultima glaciazione dal fiume Tevere, che scende giù in profondità fino a 60-70 m sotto il livello del mare. Il Fondovalle tiberino (chiamato anche paleo-alveo) non coincide con l’alveo attuale del fiume (che scorre alcune centinaia di metri più a sud, ed è molto meno inciso) e si compone di sedimenti olocenici di notevole spessore, e, solo nella parte superiore presenta gli elementi della pianura costiera recente della Campagna Romana con depositi marini, dunari, lagunari ed alluvionali dell’Olocene.
La caratteristica di questo strato profondo, seppur spesso, è di non essere del tutto impermeabile e di costituire all’occorrenza una valvola di sfogo per le espulsioni di acque, fanghi, vapori e gas termali delle c.d. attività finali del Vulcano dei Colli Albani. Nel Lazio si conoscono altri punti come questo: le Acque Albule, Cava dei Selci, l’Acqua Acetosa Laurentina, Ardea, la Zolforata di Pomezia e Tor Caldara di Lavinio. In epoca romana dunque il suolo doveva quindi offrire uno scenario ben diverso dall’attuale, dai caratteri luciferini: sbuffi di gas e acque mineralizzate, pozze di acque bullicanti spesso a elevate temperature, circondate da croste calcaree, patine ferruginose e depositi di minerali sulfurei e cristalli di gesso.
La superficie pianeggiante si apriva in improvvise depressioni coniche profonde alcuni metri e larghe una decina, che rappresentavano i camini di fuoriuscita dei materiali idrotermali. Gli archeologi, in questo tratto di scavo, ne hanno individuate ben 10, distanti tra loro variabilmente tra i 30 e i 100 metri. Tutta l’area comunque doveva apparire butterata di continui saliscendi, ed apparire avvolta di una nebbia irreale, che in occasione di fenomeni particolarmente intensi, doveva avere livelli di tossicità elevati, tali da uccidere a volte gli animali in transito. Una descrizione di questo luogo paludoso interessato da fenomeni di risorgive tossiche, sembrerebbe esservi in Vitruvio (3, 3, 17): «[In] Via Campana […] est lucus in quo fons oritur; ibique avium et lacertarum reliquarumque serpentium ossia iacentia apparent». Ma l’iscrizione è abbastanza controversa.
È facile comunque immaginare che i Romani, e prima di loro Etruschi ed Italici, abbiano attribuito alla palude idrotermale caratteri di luogo maledetto, raffigurandolo come un naturale punto di comunicazione fra il mondo degli Inferi e quello dei vivi, e per questo da evitare, o da oltrepassare in fretta se proprio non si poteva evitare.
La studiosa Serlorenzi ha ipotizzato che la Via Campana arcaica finisse grossomodo qui, a due passi dal mare, senza raggiungerlo. Come detto, gli uomini non dovevano recarvisi con piacere, e si poteva incontrare qui solamente la comunità abbrutita dei cavatori di sale. A loro servizio dovevano esservi un sistema di passarelle sorrette da pali, o forse più in là nel tempo un sistema di ponti in legno.
I resti emersi durante lo scavo non risalgono comunque alla fase arcaica della Via Campana, ma ai rifacimenti in pietra di Epoca traianea (fine I sec. - inizio II sec. d.C.), a loro volta sovrapposti agli interventi dell’Imperatore Claudio di mezzo secolo precedenti. In questo settore l’antica Via si sviluppa da N-E a S-O, con un tracciato e una direzione diversi dalla Via Portuense moderna (che segue un asse da E a O). L’angolo tra le due vie è di circa 35° (il punto di incidenza tra le due arterie è al km 17,500 della Portuense moderna). Questo aspetto ha messo in crisi il luogo comune che vuole il percorso antico, se non proprio sovrapposto, quantomeno parallelo al percorso moderno.
L’area viene individuata nel 1996 e a fine decennio e nel 2005 vengono effettuate delle prospezioni archeologiche in trincea, che permettono agli archeologi di risalire fino al paleosuolo naturale ferruginoso. Da segnalare che nel corso degli scavi archeologici l’attività delle risorgive, lungi dall’essere storicamente conclusa, è riemersa, con una polla di forma conica profonda mezzo metro, che ha provocato la fuoriuscita di acqua mista a anidride carbonica (con circa il 25% di CO2): del resto fuoriuscite occasionali di acque mineralizzate sono effettivamente state segnalate in zona.
L’asse viario antico è costruito in elevato, come un moderno viadotto, sorretto da una sequenza di ponti.
Il viadotto è sostruito da due muri di contenimento laterali in materiale cementizio, con paramento in opera reticolata con cubilia di tufo, in alcuni casi di diverso colore. I muri di contenimento sono muniti di contrafforti esterni, posti a circa 4,50 metri di distanza l’uno dall’altro.
L’impalcato stradale misura 5,30 metri. Uno dei motivi per cui il viadotto è stato in un primo tempo confuso con un acquedotto è che la sede stradale ha subito, probabilmente in epoca medievale, una spoliazione della originaria pavimentazione in basoli di selce, per cui, della pavimentazione rimangono solo i livelli di preparazione (strati di terra alternati a strati di ghiaia).
Il tracciato interseca in una decina di punti le depressioni idrotermali del paleosuolo. In corrispondenza delle depressioni la Via adotta la soluzione ingegneristica del ponte, a campata unica, oppure a doppio fornice con pilone centrale. Ne sono stati complessivamente individuati 13.
I ponti hanno spalle in calcestruzzo, rivestite internamente da blocchi di tufo. Al di sopra dei blocchi si imposta una volta a botte munita di costolature laterizie di rinforzo. La volta è rifinita in facciata da archi con ghiere, anch’esse in laterizio, di cui rimangono i resti delle reni.
Tra i ponti, quello di maggiori dimensioni è il n. 9, che supera ben due polle idrotermali ravvicinate. La struttura presenta una tecnica costruttiva differente dagli altri ponti, con fondazioni realizzate in cassaforma (con ancora visibili le impronte di tavoloni verticali in legno), con una gettata di conglomerato cementizio con caementa legati da malta pozzolanica. Sul Ponte n. 9 sono ben visibili i segni di numerosi interventi di restauro (tanto da non consentire agli archeologi di ricostruirne la fisionomia originaria): ciò indica che l’attività delle due polle idrotermali doveva essere particolarmente intensa. L’ipotesi è che comunque il Ponte n. 9 avesse due condotti laterali ed una pila centrale in struttura piena, forse alleggerita da un occhione.
I restauri sul Ponte n. 9 debbono essere andati avanti per tutta l’epoca classica, e anche in epoca tarda deve essersi proceduto ad interventi più grossolani, nel tentativo di riempire le polle o di aggirarle con deviazioni del tracciato. Gli archeologi hanno in effetti riscontrato maldestri tentativi di riempimento con di materiali inerti e la presenza di pianciti (viottoli di aggiramento in pezzame di tufo).
Le opere di fondazione del Ponte n. 9, per la supposta virulenza delle due polle contigue che le investono, sono state scavate in profondità, al fine di rilevare la stratigrafia dei depositi carbonatici e permettere, con il supporto dei geologi, la datazione al carbonio.
I rilievi hanno individuato quattro diversi livelli di incrostazioni minerali: uno più antico (tagliato dalle strutture di fondazione, quindi anteriore ad esse), un secondo e un terzo coevi all’utilizzo della strada (uno inferiore relativo alle prime fasi di utilizzo, e uno superiore più tardo), e infine un quarto (successivo all’abbandono del tracciato, in Epoca rinascimentale).
È stato costituito un pool multidiciplinare di studiosi (Paola Tuccimei, Michele Soligo, Antonia Amoldus-Huyzendveld, Cinzia Morelli, Andrea Carbonara, Marilena Tedeschi, Guido Giordano), cui è stato affidato il compito di indagare i sedimenti e datare al carbonio il 2° e il 3° livello (cioè i due contemporanei all’utilizzo della strada). Sono stati quindi prelevati dei campioni, ed inviati al Laboratorio di Geologia Isotopica dell’Università di Berna in Svizzera, dove sono stati analizzati con il metodo detto U/Th (frazionamento degli isotopi di uranio e torio). I campioni sono stati macinati, lavati, messi in soluzione con spike contenente isotopi di uranio e torio e di seguito sono stati calcolati i c.d. rapporti di attività. L’analisi spettrometrica ha così dato il suo responso.
Lo strato n. 2, il più antico, ha un’età media di 2650 anni e risalirebbe all’anno 643 a.C. (si ricordi comunque che la datazione al carbonio presenta un margine di errore di ±250 anni). In quell’anno dunque la Via Campana già esisteva.
Lo strato n. 3, il più recente, ha un’età media di 1025 anni e risalirebbe all’anno 982 d.C.: nella fase più buia del Medioevo la Via Portuense-Campana era ancora affiorante in superficie, non ancora sommersa dai detriti alluvionali.