La Necropoli di Malnome è il più grande sepolcreto portuense, datato tra fine I sec. e II sec. d.C.
Viene scoperto nel 2006 dai Finanzieri e scavato nel 2007. Le indagini rivelano 270 sepolture poverissime, in fosse terragne ricoperte da tegole o legno, con i corpi avvolti in un sudario. Gli scarsi corredi consistono in vasellame, uno specchio, due orecchini, una collana con pendagli e appena 70 monete per pagare il pedaggio a Caronte. La necropoli è composta in prevalenza di maschi, adulti, con le ossa rotte dalla fatica: da questo dato gli antropologi deducono che Malnome fosse la necropoli della comunità di lavoratori dei porti di Claudio e Traiano e delle vicine Saline. L’esame del cranio di un trentenne affetto da signazia ha permesso di riconoscere tuttavia, nella abbrutita comunità portuale, aspetti di inattesa umanità.
A caccia di tombaroli
Nell’estate 2006 la Guardia di Finanza di Fiumicino irrompe nella casa di un trafficante di reperti archeologici, rinvenendo materiali freschi, con la terra ancora non dilavata, probabile frutto di uno scavo clandestino in corso nelle immediate vicinanze. L’indagine si allarga, sotto la direzione del II Gruppo operativo, e porta in breve a sgominare il traffico e ad individuare lo scavo, nella zona sud-orientale della Tenuta agricola di Castel Malnome. I giornali danno spazio alla brillante operazione, e riportano le parole del tenente colonnello Pierluigi Sozzo: «Le risorse della Guardia di Finanza per questo tipo di attività sono residuali, ma la passione che mettiamo è tanta e ci permette di fare scoperte importanti» (La Repubblica, 9 giugno 2008).
Nel marzo 2007 la Soprintendenza avvia lo scavo estensivo, sotto la direzione di Laura Cianfriglia, archeologa responsabile per il XV Municipio. L’area si estende per 3000 mq e occupa il pianoro sommitale di un bancone di depositi di sabbia e ghiaia di origine marina. Si tratta della più vasta necropoli del Suburbio, e, tra gli scavi recenti a Roma, è la seconda per estensione, dopo la Necropoli Collatina.
Le sepolture risalgono ad un periodo compreso tra la fine del I sec. d.C. ed il II. Vengono individuati 270 scheletri, in perfetto stato di conservazione, depositi in fosse terragne con copertura fittile (con tegole in coccio disposte a cappuccina) o più spesso con umili e deperibili tavole di legno. I corpi sono in maggioranza fasciati o avvolti in un sudario. Soltanto 70 di essi hanno, stretta tra i denti, la moneta per pagare il pedaggio a Caronte per l’Aldilà. Gli altri 200 erano, per così dire, portoghesi.
I corredi sono umilissimi e presenti solo in una tomba su tre: boccali in ceramica, lucerne, ecc. Il ritrovamento più prezioso è una collana con pendagli di ambra, osso, conchiglie e un amuleto dedicato alla dea egizia Bes, a corredo della sepoltura di un bambino di 8 anni. Una donna è stata sepolta con il suo specchio; un’altra con un paio di orecchini d’oro. Infine sono state rinvenute due ollette in ceramica, contenenti le ceneri degli unici due defunti incinerati della necropoli.
A scavi conclusi il sepolcreto è stato interrato e non è oggi visitabile.
L’isola dei morti
Quali sono le cause delle presenza di una necropoli così estesa in aperta campagna, in una zona ritenuta archeologicamente poco interessante?
La collina di Malnome è già in antico un marcatore del paesaggio: si trova al centro di una pianura ricoperta di acquitrini salmastri, in cui già dal X secolo a.C. ferve l’attività estrattiva del sale sotto il controllo degli Etruschi di Vejo: in quest’isolotto asciutto è possibile che la pietas dei più antichi frequentatori abbia portato occasionali sepolture, già in tempo remoto.
Ma «è con l’età imperiale - spiega la Cianfriglia - e con la realizzazione dei porti di Claudio e di Traiano che tutta l’area viene investita da un processo di profonda trasformazione e popolamento. Questa gente abitava probabilmente in uno degli insediamenti verso il porto». E Malnome era la loro necropoli.
L’indagine del Servizio antropologico della Sovrintendenza, diretto da Paola Catalano, riscontra questa ipotesi. Su 270 scheletri, il 72% appartiene a maschi. Sono in maggioranza individui adulti (nella fascia tra i 20 e i 40 anni), mentre mancano quasi del tutto giovani e vecchi. «Evidentemente, a Malnome riposa una comunità di lavoratori», è la conclusione della Catalano: saccarii (facchini ai moli), portatori di sale e uomini di fatica in genere, in condizione di schiavitù oppure di immigrati, comunque in estrema miseria. I dati antropometrici evidenziano numerosi segni della fatica impressi nelle ossa, soprattutto fratture lungo gli arti e lesioni alle vertebre. «Molti scheletri - afferma la Catalano - sono caratterizzati da alterazioni della colonna vertebrale, dovute al trasporto di carichi pesanti».
Nella conferenza di presentazione dei ritrovamenti l’allora Soprintendente Angelo Bottini così conclude: «La quantità dei materiali ritrovati non è rilevantissima, ma in questo scavo i pezzi di pregio sono le povere ossa, che ci permetteranno di sapere come viveva una piccola comunità operaia nella capitale dell’Impero al momento del massimo fulgore».
L’uomo senza sorriso di Malnome
Tra i rinvenimenti di Malnome gli archeologi notano un cranio, appartenuto ad un uomo tra i 30 e i 35 anni, il cui volto delinea una smorfia enigmatica: la bocca serrata a denti stretti, con la dentatura mancante degli incisivi.
L’esame radiografico, condotto alla tac al Policlinico Casilino dal professor Paolo Preziosi, rivela che l’uomo era affetto da una rarissima malformazione congenita, la signazia. Si tratta di un’ossificazione dell’articolazione temporo-mandibolare. La mandibola e la tempia sono saldate su entrambi i lati. Questo individuo non ha mai potuto masticare, parlare, persino sorridere… Al mondo se ne contano non più di cinque casi e mai nessuna testimonianza era emersa dal mondo antico.
La mancanza degli incisivi rivela un gesto di pietà: qualcuno, fin da bambino, deve avergli strappato via gli incisivi, per permettergli di alimentarsi con cibi semiliquidi, di emettere suoni, e svolgere così la sua misera vita di facchino. Gli antropologi interpretano questo intervento come volontario da parte della Comunità portuense, per assicurare la sopravvivenza ad un individuo altrimenti destinato a morire in età infantile.
La mentalità del tempo infatti consentiva al pater familias o al padrone di lasciar morire un bambino nato deforme. «Gli antichi non avevano simpatia per le anomalie - osserva Bottini -. Qui invece assistiamo a una comunità povera che si dà da fare per salvare la vita a una persona, strappandogli via addirittura i denti, per respirare e mangiare. Questo nucleo contraddice la mentalità di quel periodo di sentire le anomalie come un elemento negativo».