La Tomba di Ambrosia è una camera funeraria del II sec. d.C., che deve il nome popolare alla raffigurazione della ninfa Ambrosia, nel momento della sua morte cruenta.
Per gli archeologi la tomba è denominata Tomba A, in quanto è la prima delle cinque tombe scoperte nel 1966 durante la costruzione del Drugstore Portuense. La struttura risale a metà del II sec. e subisce forti rimaneggiamenti alla fine del secolo. È interamente scavata nel tufo, con volta a botte. Da un gradino si accede all’ambiente quadrangolare, intonacato in giallo e porpora, con un nicchione centrale e numerose nicchiette e loculi. Il pavimento in mosaico bianco e nero raffigura, tra scene di vendemmia, Licurgo ubriaco che, colto da folle frenesia, uccide la ninfa Ambrosia a colpi di scure: la ninfa ottiene dagli dèi di sopravvivere nella linfa delle viti, generando il rosso nettare del vino.
La tipologia costruttiva della Tomba A è quella del sepolcro familiare. Si tratta di un ambiente unico, di forma quadrangolare, con al centro nella parete di fondo il nicchione rettangolare destinato alle ceneri del pater familias. Accanto e intorno (nelle pareti laterali), si trovano, disposte simmetricamente, le altre sepolture dei componenti dell’unico nucleo familiare, discendenti o affini che fossero.
Sono stati rinvenuti, in tutto, i resti di otto individui e ceneri di cremazione, ma non sono state trovate scritte che attestassero i nomi o le vicende familiari. Non sappiamo quindi se il pater familias era l’effetivo capofamiglia, il capostipite o, come anche poteva accadere, un parente ricco, generoso finanziatore della camera funeraria.
La grande nicchia rettangolare è sormontata da una calotta a forma di conchiglia, in stucco bianco. Al di sotto si trova un loculo, che ospitava due sepolture e ospitava due discendenti o affini importanti, morti un paio di generazioni dopo il pater familias. La decorazione pittorica della parete è assai ricca. La parte inferiore è organizzata per riquadri a fondo bianco, contornati con una fascia color porpora, in cui sono raffigurati policromi elementi geometrici e figurativi. La parte superiore è intonacata in colore giallo. Ai lati della nicchia centrale vi sono due figure volanti con scudo in stucco bianco.
Le pareti laterali presentano in origine due file di 4 nicchie su per ciascun lato, destinate a contenere le urne cinerarie dei defunti. Nel II sec. d.C. succede tuttavia che l’uso della cremazione dei defunti (incinerazione), tradizionale nella cultura romana, viene via via soppiantato dalla deposizione della salma integra (inumazione). Questo porta in genere, nei sepolcri di famiglia di questa fase storica, ad interventi di restauro nelle camere funerarie esistenti, per adattarle al passaggio da una tipologia all’altra, trasformando le nicchie per le urne cinerarie in loculi e arcosoli. Questo fenomeno ha interessato anche questo sepolcro.
Nella parete di destra, particolarmente evidente è l’ingrandimento della seconda nicchia da sinistra della fila inferiore, cui è stata aggiunta una copertura ad arco ribassato. I lavori di edificazione del Drugstore hanno danneggiato la prima e la seconda nicchia a destra della fila superiore e la prima nicchia di destra della fila inferiore.
Nella parete di sinistra i lavori moderni sono stati ancora più invasivi, e i rifacimenti delle nicchie sono oggi difficilmente interpretabili. Si cercava in genere, nei sepolcri familiari, di mantenere una certa simmetria, per cui possiamo immaginare anche qui un doppio filare di nicchiette, tagliate poi per ricavarvi altri loculi per l’inumazione. Si nota inoltre lo scavo, alla base, di un loculo aggiuntivo. Poco o nulla rimane della parete d’ingresso.
Il pavimento è decorato in mosaico bianco e nero e si conserva integro, con la sola eccezione di una fossa intagliata sul lato destro, realizzata quando i loculi alle pareti erano ormai tutti occupati. Nella fossa è stata rinvenuta una moneta di Caronte raffigurante l’imperatore Clodio Albino, il cui breve regno ci permette di datare la sepoltura nell’anno 196 d.C. Questa fu probabilmente l’ultima sepoltura della tomba.
Ninfa Ambrosia: vino, sangue, oblìo
Il mosaico pavimentale propone una rappresentazione dionisiaca - una terribile scena di stupro e morte -, nella quale, tra immaginette di lavori per la vendemmia, compare centralmente il tristo personaggio di Licurgo. Vuole la tradizione che Licurgo, inebriato durante la vendemmia fino a perdere il lume della ragione, abbia assalito la ninfa Ambrosia, intenzionato a violarla. Alla resistenza della ninfa, Licurgo brandisce una scure bipenne, infierendo sul suo corpo: perché se la ninfa non può essere sua, costei non sarà di nessun altro.
La ninfa invoca gli dèi affinché le concedano la salvezza, o per lo meno cancellino, nell’Aldilà, il ricordo della brutalità dell’assalto. La sua richiesta viene esaudita all’istante e la ninfa sfugge al carnefice trasformandosi in un tralcio di vite. Da allora Ambrosia vive all’interno di ogni vite, e accompagna chi beve il rosso nettare che la vite genera, concedendogli il potere di dimenticare, insieme a lei, il male della vita.
La raffigurazione musiva rappresenta il momento più drammatico del mito, quello in cui Licurgo si avventa sulla ninfa scagliandole contro colpi di scure. La ninfa appare già trasformata in un ramo di vite.
Il mosaico è contornato, ai lati, da una fascia decorativa composta di tralci di vite intrecciati. Ai quattro angoli sono raffigurati quattro kantaron (grandi vasi), dai quali si originano i rami. Al centro di ogni lato si distinguono quattro figurette maschili, che rappresentano ognuna una diversa fase della vendemmia.
Questo tipo di decorazione a tema dionisiaco non connota necessariamente il capofamiglia come un seguace del dio Bacco. Al contrario, testimonia la moda dell’epoca (il c.d. sincretismo religioso), in cui la religione romana classica convive con i culti emergenti di provenienza straniera, sapendone cogliere e integrare gli aspetti mancanti nella religiosità tradizionale (in questo caso: il superamento e l’elaborazione del dolore ingiusto).
Dopo la conquista della Grecia e del Vicino Oriente, Roma si apre con benevolenza ad un sistema religioso complesso, in cui le fedi dei vinti e dei vincitori convivono e si permeano a vicenda: tre tipologie di culti - quelli romani arcaici (detti indigeni), quelli tradizionali (il pantheon classico) e importati (detti esotici) - trovano l’elemento di coesione e rispetto nel comune riconoscimento della auctoritas dell’Imperatore.
Una quarta tipologia di culto è costituita dai culti tradizionali greci, che vengono assimilati direttamente nel pantheon romano. Così Poseidon è la declinazione greca di Nettuno, ed è per i naviganti di entrambe le culture l’indiscusso signore dei mari, il comune destinatario delle loro preghiere. Allo stesso modo Zeus-Giove è per tutti il padre degli dèi; Athena-Minerva è l’immagine universale della sapienza, ecc.
In alcuni casi l’assimilazione è imperfetta (Dioniso greco ha tratti completamente diversi dal Bacco romano), e in altri casi ancora l’assimilazione è impossibile, come per le divinità lunari Diana e Selene, che rimangono distinte.
Le simpatie verso una religione non escludevano l’appartenenza all’altra (e spesso i culti si contaminavano, rendendo i confini incerti). Le nuove religioni, fin tanto che non sconfinavano in violazioni delle leggi dello Stato Romano, erano per lo più tollerate.